Cap. 10

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«Mantello: velluto veneziano con fodera di taffetà di seta. Vestito: lino tedesco stampato, pizzo del Devonshire, corsetto di broccato di seta ricamato.» Madame Rossini depose sul tavolo con cura un capo alla volta. Dopo mangiato, Mrs Jenkins mi aveva portato di nuovo nella sartoria. L’ambiente circoscritto mi piaceva molto di più della solenne sala da pranzo, era pieno di tessuti meravigliosi e Madame Rossini, con il suo collo da tartaruga, era forse l’unica persona nei confronti della quale neppure la mamma aveva pronunciato una parola ostile. «Il tutto di una tinta blu polvere con rifiniture color crema, un elegante completo da pomeriggio», proseguì. «Per finire, scarpe di broccato di seta intonate. Molto più comode di quanto appaiano. Per fortuna tu e lo spaventapasseri avete lo stesso numero di piede.» Spostò la mia uniforme scolastica, usando la punta delle dita. «Uffa, uffa, uffa, questa roba fa somigliare anche la ragazza più bella a uno spaventapasseri. Se almeno fosse possibile accorciare la gonna a una lunghezza di moda. Ah, e questo orribile giallo pipì! Chi l’ha concepito deve proprio odiare gli studenti dal profondo del cuore!»
«Posso tenere almeno la biancheria?»
«Soltanto le mutandine», rispose Madame Rossini. «Non sono autentiche, ma nessuno ti guarderà sotto la gonna. E, anche se lo facesse, tu prendilo a calci, in modo che gli passi la voglia di sentire e vedere. Anche se non sembra, queste scarpette hanno la punta rinforzata in ferro. Sei andata in bagno? È importante, perché con il vestito addosso diventerà complicato...»
«Sì, me lo ha già chiesto tre volte, Madame Rossini.»
«Voglio solo essere sicura.»
Continuavo a sorprendermi di come tutti si occupassero di me e prendessero in considerazione anche i minimi dettagli. Dopo mangiato, Mrs Jenkins mi aveva porto una trousse da bagno nuova fiammante perché mi lavassi i denti e il viso.
Mi ero aspettata che il busto mi togliesse il respiro, facendomi schizzare fuori dallo stomaco la cotoletta di vitello, e invece era incredibilmente comodo. «E io che pensavo che le donne svenissero per quanto erano strizzate.»
«In effetti succedeva. Primo, perché lo stringevano troppo. E poi perché l’aria era mefitica, dato che nessuno si lavava e tutti si profumavano», spiegò Madame Rossini rabbrividendo all’idea. «Nelle parrucche si annidavano pidocchi e zecche e da qualche parte ho letto che a volte ci si infilavano persino i topi. Ah, la moda più bella di tutti i tempi, ma di certo non l’epoca giusta per l’igiene. Tu non indossi un busto come quelle povere creature, bensì una creazione originale à la Madame Rossini, comoda come una seconda pelle.»
«Capisco.» Ero molto eccitata quando mi infilai la crinolina con il cerchio rigido. «Sembra di portarsi dietro un’enorme gabbia per uccellini.»
«Questo non è niente», mi garantì Madame Rossini, mentre mi infilava con cautela l’abito dalla testa. «Questa crinolina è molto stretta, a paragone di quelle di moda a Versailles nella stessa epoca. Quattro metri e mezzo di diametro, sul serio. E poi la tua non è fatta di stecche di balena, ma di fibra di carbonio ultraleggera. Tanto non la vede nessuno.»
Tutt’intorno a me si gonfiò una nuvola di stoffa azzurra con tralci fioriti color crema, molto indicata anche come rivestimento per divani. Tuttavia, dovevo riconoscere che, nonostante la lunghezza e la mostruosa ampiezza, l’abito era proprio comodo e mi stava davvero a pennello.
«Incantevole», disse Madame Rossini, sospingendomi verso lo specchio.
«Oh», esclamai sorpresa. Chi avrebbe mai immaginato che un tessuto da tappezzeria potesse risultare tanto bello? E io insieme a lui. Che vita sottile, che occhi azzurri. Acc... ! Solo il mio décolleté somigliava a quello di una cantante lirica poco prima di esplodere.
«Bisogna aggiungere ancora del pizzo», spiegò Madame Rossini che aveva seguito il mio sguardo. «Dopotutto è un abito da pomeriggio. Di sera invece bisogna mostrare ciò che si ha. Spero davvero che avremo il piacere di preparare un abito da ballo per te! Ora pensiamo all’acconciatura. »
«Mi metterò una parrucca?»
«No», rispose Madame Rossini. «Sei una ragazza ancora giovane ed è pomeriggio. Basta pettinare con garbo i capelli e portare un cappello. La tua pelle è perfetta così. È di alabastro purissimo. E quella graziosa voglia a forma di mezzaluna sulla tempia può benissimo essere scambiata per un neo di bellezza. Très chic.»
Madame Rossini mi arricciò i capelli con il ferro caldo, poi mi lisciò la parte anteriore fissandola abilmente con delle forcine e lasciò ricadere in morbidi boccoli sulle spalle il resto della chioma. Mi guardai allo specchio e rimasi ammirata da me stessa.
Mi ricordai la festa in costume dell’anno precedente, quella organizzata da Cynthia. In mancanza di un’idea più brillante, c’ero andata vestita da fermata dell’autobus e alla fine della serata mi sarei data volentieri la locandina sulla testa, perché tutti avevano continuato a chiedermi l’orario delle corse.
Ah! Se avessi conosciuto Madame Rossini allora! Sarei stata la star della serata.
Mi rigirai ancora una volta incantata davanti allo specchio, ma poi fui richiamata all’ordine quando Madame Rossini ricomparve alle mie spalle e mi sistemò in testa il cappello. Era un enorme coso di paglia con piume e nastri azzurri e a mio parere rovinava irrimediabilmente tutto l’insieme. Cercai di convincere Madame Rossini a lasciarlo perdere, ma lei fu irremovibile.
«Senza cappello no, no, non va! Non è un concorso di bellezza, ma chérie. Qui si tratta di rispettare l’autenticità. »
Cercai il cellulare nella tasca dell’uniforme. «Può almeno farmi una foto senza cappello?»
Madame Rossini scoppiò a ridere. «Bien sûr, tesoro!»
Mi misi in posa e Madame Rossini mi fece almeno una trentina di foto, da tutte le angolazioni, alcune delle quali con il cappello. Leslie avrebbe avuto qualcosa di cui ridere.
«Bene, a questo punto avviso quelli di sopra che sei pronta.
Aspettami qui e non toccare più il cappello! È perfetto così.»
«Sì, Madame Rossini», risposi ubbidiente. Era appena uscita dalla porta che subito composi il numero di Leslie e le inviai una delle foto con cappello per MMS. Mi chiamò quattordici secondi dopo. Grazie al cielo la copertura telefonica nella stanza di Madame Rossini era ottima.
«Sono sull’autobus», mi gridò Leslie all’orecchio, «ma ho con me bloc-notes e matita. Devi parlare più forte, perché accanto a me ci sono due indiane sorde che parlano tra loro, purtroppo non a gesti!»
Le feci un breve riassunto di tutto ciò che era accaduto e cercai di spiegarle in poche parole dove mi trovavo e cosa aveva detto mia madre. Nonostante il mio racconto piuttosto confuso, Leslie parve seguirmi. Continuava a ripetere alternativamente «che figata» e «fa’ attenzione!» Quando le descrissi Gideon (volle sapere ogni dettaglio), commentò: «In fondo non ho mai trovato i capelli lunghi così negativi. Possono essere anche sexy. Pensa a Il destino di un
cavaliere. Però controllagli le orecchie».
«Tanto non ha nessuna importanza. È presuntuoso e arrogante. E poi è innamorato di Charlotte. Ti sei segnata la pietra filosofale?»
«Sì, mi sono scritta tutto. Non appena arrivo a casa mi butterò su Internet. Il conte di Saint Germain, perché il suo nome mi risulta così familiare? Potrebbe essere che fosse citato in qualche film? No, quello è il conte di Montecristo. »
«E se sapesse veramente leggere nel pensiero?»
«Allora ti converrà pensare a qualcosa di innocuo. Oppure ti metti a contare all’indietro da mille. Ma saltando di otto in otto. Vedrai che non potrai pensare ad altro.»
«Potrebbero arrivare da un momento all’altro. Ora chiudo. Ah, vedi se riesci a trovare qualcosa su un bambino di nome Robert White, annegato diciotto anni fa in una piscina.»
«Scritto», disse Leslie. «Accidenti, che figata. Avremmo dovuto procurarti un coltello a serramanico, oppure uno spray al pepe... senti, sai una cosa? Portati almeno il cellulare.»
Mi avvicinai alla porta inciampando nell’abito e gettai un’occhiata circospetta nel corridoio. «Nel passato? Credi che potrei chiamarti da lì?»
«Ma va’, che dici! Però puoi fare delle foto, che ci saranno d’aiuto. Ah, e ne vorrei anche una di questo Gideon. Se possibile con le orecchie. Le orecchie dicono tantissime cose di una persona. Soprattutto i lobi.»
Sentii dei passi che si avvicinavano. Chiusi lentamente la porta. «Ci siamo. A più tardi, Leslie.»
«Stai attenta», fece in tempo a dirmi, prima che io richiudessi il cellulare e lo lasciassi scivolare dentro la scollatura. Il piccolo incavo sotto il seno aveva giusto le dimensioni adatte a un cellulare. Che cosa ci custodivano mai le dame di un tempo? Boccette di veleno, revolver (minuscoli), lettere d’amore?
La prima cosa che mi passò per la testa quando Gideon entrò nella stanza fu: perché lui non porta il cappello? La seconda fu: com’è possibile che uno con un panciotto rosso marezzato, pantaloni alla zuava verde scuro e calze di seta a righe possa risultare bello? Se pensai qualcos’altro al massimo fu una cosa del tipo: speriamo che non mi si legga in faccia ciò che penso.
Due occhi verdi mi guardarono fugacemente. «Bel cappellino.» Idiota.
«Splendida», disse Mr George entrando nella stanza da cucito dopo di lui. «Madame Rossini, avete fatto un lavoro eccezionale.»
«Sì, lo so», riconobbe Madame Rossini. Era rimasta in corridoio. La sartoria non era abbastanza grande per ospitarci tutti, il mio abito da solo occupava metà del pavimento.
Gideon si era legato i riccioli sulla nuca e io colsi al volo l’occasione di vendicarmi. «Ma che bel nastro di velluto», commentai con tutta l’ironia che riuscii a manifestare. «La nostra prof di geografia ne porta sempre uno identico. »
Invece di lanciarmi un’occhiataccia, Gideon sorrise. «Il nastro non è niente. Dovresti vedermi con la parrucca.»
Lui non lo sapeva, ma io l’avevo già visto una volta.
«Monsieur Gideon, le avevo preparato dei pantaloni giallo limone, non quelli scuri.» Quando era arrabbiata, Madame Rossini parlava con un accento straniero più marcato.
Gideon si girò verso di lei. «Calzoni gialli con panciotto rosso, calze a righe da Pippi Calzelunghe e un cappotto marrone con bottoni dorati? Mi sembrava un po’ troppo vistoso.»
«L’uomo del rococò veste vistoso!» Madame Rossini gli scoccò un’occhiata severa. «E qui sono io l’esperta, non lei.»
«Certo, Madame Rossini», rispose Gideon cortese. «La prossima volta le darò retta.»
Gli esaminai le orecchie. Non erano per niente a sventola né possedevano altre caratteristiche appariscenti. La cosa mi sollevò quasi. Anche se naturalmente non aveva la minima importanza.
«Dove sono i guanti gialli scamosciati?»
«Oh, ho pensato che, non indossando i calzoni, potevo lasciare perdere anche quelli.»
«Ma certo!» Madame Rossini schioccò la lingua. «Mi compiaccio del suo buon gusto in fatto di moda, giovanotto. Ma qui non si tratta di gusto, bensì di autenticità. E, a parte tutto il resto, ho prestato la massima attenzione affinché tutti i colori scelti si accordassero al suo viso, caro il mio ingrato giovanotto.» Ci sfilò davanti brontolando.
«La ringrazio davvero molto, Madame Rossini», le dissi.
«Figurati, mio collo-di-cigno! È stato un piacere. Se non altro tu sai apprezzare il mio lavoro.» Mi venne da sorridere. Mi piaceva essere chiamata collo-di-cigno.
Mr George mi rivolse un cenno ammiccante. «Se vuole seguirmi, Miss Gwendolyn.»
«Prima bisogna bendarle gli occhi», osservò Gideon allungando la mano per sfilarmi il cappello dalla testa.
«Il dottor White è irremovibile su questo», spiegò Mr George con un sorriso pieno di rammarico.
«Ma così le rovinerete l’acconciatura!» Madame Rossini allontanò le dita di Gideon. «Tiens! Vuole proprio strapparle i capelli? Non ha mai sentito parlare di spilloni per cappelli? Ecco!» Porse cappello e spillone a Mr George. «Faccia attenzione!»
Gideon mi bendò gli occhi con un panno nero. Quando la sua mano mi sfiorò la guancia, trattenni il fiato per un impulso automatico e non potei fare a meno di arrossire. Per fortuna lui non poteva accorgersene perché mi stava alle spalle.
«Ahia!» esclamai quando alcuni capelli rimasero impigliati nel nodo.
«Scusa. Vedi qualcosa?»
«No.» Davanti ai miei occhi c’era solo buio. «Perché non posso vedere dove andiamo?»
«Non ti è permesso conoscere l’esatta collocazione del cronografo», rispose Gideon. Mi posò una mano sulla schiena e mi spinse. Era davvero una strana sensazione essere condotta alla cieca nel vuoto, e la mano di Gideon mi irritava ulteriormente. «Trovo che sia una precauzione del tutto superflua. Questa casa è un vero labirinto. Non riusciresti mai a ritrovare la stanza, neanche se lo volessi. E comunque Mr George ritiene che tu sia al di sopra di qualunque sospetto per quanto riguarda un possibile tradimento. »
Era carino da parte di Mr George, anche se non capivo bene che cosa dovesse significare. Chi poteva avere interesse a conoscere la collocazione del cronografo, e perché?
Sbattei con la spalla contro qualcosa di duro. «Ahia!»
«La prenda per mano, Gideon, razza di maleducato», disse Mr George un po’ alterato. «Non è mica un carrello della spesa.»
Sentii una mano calda e asciutta stringere la mia e sussultai.
«Tranquilla», disse Gideon. «Sono io. Adesso scendiamo qualche gradino. Fa’ attenzione.»
Proseguimmo affiancati in silenzio per un po’, in piano, in discesa, oltre una svolta, e io ero concentrata soprattutto a impedire alla mia mano di tremare. O di sudare. Non volevo che Gideon pensasse che la sua vicinanza mi creasse imbarazzo. Chissà se si era accorto di come mi batteva forte il cuore?
E poi il mio piede destro finì nel vuoto e io barcollai e sarei caduta se Gideon non mi avesse afferrato con entrambe le mani riportandomi al sicuro sul pavimento. Mi teneva abbracciata per la vita.
«Attenta, gradino», disse.
«Ah, grazie, me n’ero accorta pure io», replicai stizzita. «Quando mi sono storta la caviglia!»
«Per amor del cielo, Gideon. Stia attento», lo rimproverò Mr George. «Ecco, lei prenda il cappello. Io aiuto Gwendolyn.»
Accompagnata dalla mano di Mr George mi risultò più facile camminare. Forse perché riuscivo a concentrarmi meglio sui passi anziché sulla mano. La nostra passeggiata durò una mezza eternità. E di nuovo provai la sensazione di inoltrarmi nelle viscere della Terra. Quando finalmente ci fermammo, non potei fare a meno di sospettare che mi avessero fatto fare qualche deviazione per confondermi.
Sentii una porta che si apriva e si richiudeva, poi finalmente Mr George mi tolse la benda dagli occhi.
«Eccoci arrivati.»
«Bello come un mattino di primavera», disse il dottor White. Però lo disse rivolto a Gideon.
«Grazie!» Gideon fece un piccolo inchino. «È l’ultima moda di Parigi. In realtà avrei dovuto indossare calzoni e guanti gialli, ma non ce l’ho proprio fatta.»
«Madame Rossini è infuriata per questo», disse Mr George.
«Gideon!» esclamò Mr de Villiers in tono di rimprovero, dopo essere spuntato alle spalle del dottor White.
«Calzoni gialli, zio Falk!»
«Non devi mica vedere i tuoi compagni di scuola, che ti prendono in giro», osservò Mr de Villiers.
«No», ribatté Gideon gettando il mio cappello su un tavolo. «Vedrò solo tipi che portano giacche rosa ricamate e le trovano terribilmente chic.» Si diede una scrollata.
Dopo essermi abituata alla luce abbagliante, mi guardai intorno con curiosità. Era una stanza senza finestre, com’era da aspettarsi, e non c’era neppure il camino. Cercai invano una macchina del tempo. Vidi soltanto un tavolo, qualche sedia, un baule, un armadio e un motto latino inciso nella pietra e appeso al muro.
Mr de Villiers mi sorrise benevolo. «L’azzurro ti dona molto, Gwendolyn. Madame Rossini ha fatto un lavoro splendido con i tuoi capelli.»
«Mmm... grazie.»
«Vediamo di sbrigarci, sto morendo di caldo con questi vestiti.» Gideon scostò di lato il pastrano, rivelando una spada appesa alla cintura.
«Vieni qui.» Il dottor White si avvicinò al tavolo e svolse da un panno di velluto rosso un oggetto che a prima vista somigliava a un grosso orologio da camino. «Ho già preparato tutte le regolazioni. Avete a disposizione una finestra temporale di tre ore.»
Guardando meglio vidi che non era un orologio, bensì un bizzarro apparecchio di legno lucido e metallo pieno di pulsanti, sportellini, rotelle. Tutte le superfici erano decorate con miniature di sole, luna e stelle e ricoperte di segni e lettere misteriose. Era bombato come una custodia da violino e incastonato di pietre preziose scintillanti, talmente grosse che di sicuro non potevano essere vere.
«Quello sarebbe il cronografo? Così piccolo?»
«Pesa quattro chili e mezzo», disse il dottor White, con lo stesso orgoglio di un padre che parla del peso del figlio appena nato. «E – prima che tu me lo chieda – le pietre che vedi sono tutte autentiche. Questo rubino da solo ha sei carati.»
«Gideon andrà per primo», disse Mr de Villiers. «La parola d’ordine?»
«Qua redit nescitis», recitò Gideon.
«Gwendolyn?»
«Sì?»
«La parola d’ordine!»
«Che parola d’ordine?»
«Qua redit nescitis», disse Mr de Villiers. «La parola d’ordine dei
Guardiani per questo 24 settembre.»
«Ma oggi è il 6 aprile.»
Gideon alzò gli occhi al cielo. «Viaggeremo fino al 24 settembre, sempre tra queste mura. Per evitare che i Guardiani ci mozzino la testa, dobbiamo conoscere la parola d’ordine. Qua redit nescitis. Ripeti!»
«Qua redit nescitis», ripetei. Non sarei mai riuscita a ricordarmela per più di un secondo. Ecco, l’avevo già dimenticata. Chissà, magari potevo scrivermela su un foglietto? «Che cosa significa?»
«Ma scusa, non studi latino a scuola?»
«No», risposi. Studiavo francese e tedesco ed era più che abbastanza.
«‘Voi non conoscete l’ora del suo ritorno’», disse il dottor White.
«Una traduzione molto libera», osservò Mr George. «Si potrebbe dire anche: ‘Voi non sapete quando...’»
«Signori!» Mr de Villiers indicò con aria eloquente il suo orologio da polso. «Non abbiamo molto tempo. Sei pronto, Gideon?»
Gideon porse la mano al dottor White. Questi aprì uno sportellino del cronografo e infilò l’indice di Gideon nell’apertura. Si sentì una specie di ronzio, quasi una melodia, mentre dentro l’apparecchio gli ingranaggi si mettevano in movimento. Come in un carillon. Una delle pietre preziose, un gigantesco diamante, si illuminò improvvisamente dall’interno e diffuse una luce bianca e limpida sul viso di Gideon. Nello stesso istante lui scomparve.
«Che figata», bisbigliai impressionata.
«Puoi ben dirlo», concordò Mr George. «Ora tocca a te. Mettiti esattamente qui.»
«E ricorda quello che ti abbiamo detto», proseguì il dottor White. «Farai tutto ciò che ti dice Gideon. Restagli sempre vicino, qualunque cosa accada.» Mi prese la mano e infilò il mio dito indice nell’apertura di uno sportellino. Qualcosa di appuntito mi bucò il polpastrello e io sussultai indietreggiando. «Ahia!»
Il dottor White mi tenne la mano saldamente premuta contro l’apertura del cronografo. «Non muoverti!»
Stavolta fu una grossa pietra rossa a illuminarsi. Una luce rossa si diffuse e mi accecò. L’ultima cosa che vidi fu il mio ingombrante cappello, dimenticato sul tavolo. Poi tutt’intorno a me si fece buio.
Una mano mi afferrò per una spalla.
Accidenti, com’era quella stupida parola d’ordine? Qua ciripà ciripitis. «Sei tu, Gideon?» bisbigliai.
«Chi altri?» rispose lui sottovoce, lasciando la mia spalla. «Brava, non sei caduta!» Accese un fiammifero e un attimo dopo la stanza fu rischiarata da una torcia.
«Ganzo. Ti eri portato dietro anche questa?»
«No, era già qui. Prendila tu.»
Quando afferrai la torcia, fui contenta di essermi dimenticata quello stupido cappello. Con le sue enormi piume sospese, si sarebbe incendiato in un batter d’occhio e allora mi sarei trasformata anch’io in una bella fiaccola umana.
«Fai piano», disse Gideon, anche se non mi ero mossa di un millimetro. Aveva aperto la porta (si era portato dietro la chiave, oppure l’aveva trovata nella serratura? Non ci avevo fatto caso) e si era affacciato per guardare nel corridoio. Era buio pesto.
«C’è puzzo di marcio», dissi.
«Sciocchezze. Vieni!» Gideon richiuse a chiave la porta alle nostre spalle, mi tolse la fiaccola e avanzò nel corridoio buio. Io lo seguii.
«Hai intenzione di bendarmi di nuovo?» gli chiesi metà per scherzo e metà sul serio.
«È buio pesto, comunque non riconosceresti niente», rispose Gideon. «Ragione di più per restarmi vicina. Entro tre ore al massimo dobbiamo tornare qua sotto.»
Ragione di più perché anch’io sapessi la strada. Come me la sarei cavata se gli fosse successo qualcosa, oppure se ci fossimo separati? Decisamente non era un buon piano lasciarmi così all’oscuro. Però mi morsi la lingua. Non avevo voglia di litigare proprio adesso con Mr So-tutto-io.
C’era puzzo di muffa, molto più forte che alla nostra epoca. Sino a che anno eravamo risaliti?
Era un odore davvero singolare, come se ci fosse qualcosa lasciato a putrefarsi lì sotto. Non so perché, ma mi vennero in mente i topi. Nei film i lunghi corridoi bui e le fiaccole erano sempre accompagnati da topi! Orribili ratti neri, con gli occhi che luccicavano al buio. Oppure topi morti. Ah già, e poi c’erano i ragni. Anche i ragni facevano parte dell’insieme. Mi sforzai di non superare le pareti e di non immaginare i grossi ragni che si aggrappavano all’orlo del mio abito e risalivano lentamente all’interno per arrampicarsi sulle mie gambe nude...
Mi concentrai invece a contare i passi sino a ogni svolta. Dopo quarantaquattro passi si girava a destra, dopo cinquantacinque a sinistra, poi ancora a sinistra fino a raggiungere una scala a chiocciola che saliva. Mi sollevai la gonna il più in alto possibile, per riuscire a stare al passo con Gideon. Da qualche parte in alto c’era una luce, che diventò sempre più forte man mano che salivamo, finché ci ritrovammo in un ampio corridoio rischiarato da molte fiaccole fissate al muro. In fondo al corridoio si apriva una grande porta, fiancheggiata ai lati da due armature equestri, arrugginite come alla nostra epoca.
Per fortuna non mi parve di scorgere ratti, anche se avevo l’impressione di essere osservata. Più ci avvicinavamo alla porta più tale sensazione aumentava. Mi guardai intorno, ma il corridoio era vuoto.
Quando una delle armature mosse di scatto il braccio puntandoci addosso una lancia (o qualunque cosa fosse) con aria minacciosa, mi bloccai trattenendo il fiato. Ora sapevo chi ci aveva osservato.
Una voce metallica dentro l’armatura pronunciò un «Alt!» del tutto superfluo.
Sentii un grido di terrore risalirmi in gola, ma ancora una volta dalla mia bocca non uscì neppure un suono. In effetti avevo compreso abbastanza velocemente che non era stata l’armatura a muoversi e parlare, bensì la persona che ci stava dentro. Anche l’altra armatura sembrava animata.
«Dobbiamo parlare al Maestro», disse Gideon. «Si tratta di una faccenda molto urgente.»
«Parola d’ordine», disse la seconda armatura.
«Qua redit nescitis», recitò Gideon.
Ah, sì, giusto. Per un attimo rimasi sinceramente ammirata. L’aveva imparata sul serio.
«Potete passare», disse la prima armatura aprendoci addirittura la porta.
Oltre l’uscio si diramava un altro corridoio, anch’esso rischiarato da fiaccole. Gideon infilò la nostra in un sostegno a muro e avanzò a passo svelto. Io lo seguii con la velocità che la crinolina mi permetteva. Ormai ero quasi senza fiato.
«Sembra di essere in un film dell’orrore. Che spavento. Pensavo che quei cosi fossero solo decorativi! Voglio dire, le armature non sono più moderne neppure nel XVIII secolo, no? E nemmeno troppo utili, secondo me.»
«Le sentinelle le portano per tradizione», mi spiegò Gideon. «Anche alla nostra epoca è lo stesso.»
«Ma io non ho visto nessuna sentinella con l’armatura. » Poi però mi ricordai che forse qualcuna l’avevo vista. Avevo soltanto creduto che dentro non ci fosse il cavaliere.
«Muoviti», mi incalzò Gideon.
Facile parlare per lui, non doveva trascinarsi dietro una gonna larga quanto una tenda canadese.
«Chi è il Maestro?»
«L’Ordine è presieduto dal Gran Maestro. A quest’epoca ovviamente è il conte in persona. L’Ordine è ancora giovane, è stato fondato solo da trentasette anni. Anche in seguito furono spesso membri della famiglia de Villiers a ricoprire la carica.»
Questo significava forse che il conte di Saint Germain apparteneva alla famiglia de Villiers? Ma allora perché si chiamava Saint Germain? «E oggi? Cioè, alla nostra epoca? Chi è il Gran Maestro? »
«Attualmente è mio zio Falk», rispose Gideon. «Ha preso il posto di tuo nonno, Lord Montrose.»
«Non mi dire.» Il mio caro nonno, sempre di buonumore, Gran Maestro della loggia segreta del conte di Saint Germain! E io che avevo sempre pensato che fosse totalmente succube di mia nonna.
«Che ruolo occupa Lady Arisa nell’Ordine?»
«Nessuno. Le donne non possono far parte della loggia. I parenti stretti dei membri della cerchia suprema entrano a far parte automaticamente della cerchia esterna degli iniziati, ma non hanno nessuna voce in capitolo.» Chiaro.
Forse il suo modo di trattarmi era una caratteristica innata dei de Villiers? Una specie di difetto genetico, che li induceva a dimostrare nei confronti delle donne soltanto un sorrisetto sprezzante? Tuttavia dovevo riconoscere che con Charlotte era stato molto cortese. E anche in quel momento si stava comportando in maniera quantomeno educata.
«Perché chiamate vostra nonna sempre Lady Arisa?» domandò. «Perché non le dite nonna, come fanno tutti gli altri nipoti?»
«Perché sì», risposi. «Perché le donne non possono entrare nella loggia?»
Gideon allungò il braccio verso di me e mi sospinse dietro di sé.
«Chiudi la bocca per un po’.»
«Come, scusa?»
In fondo al corridoio c’era un ampio scalone, inondato di luce naturale proveniente dall’alto, ma prima che potessimo raggiungerlo due uomini sbucarono dall’ombra con le spade sguainate, come se ci aspettassero.
«Buongiorno», disse Gideon che, diversamente da me, non aveva neppure battuto ciglio. Però aveva posato la mano sull’elsa della spada.
«Parola d’ordine!» ordinò il primo dei due.
«Siete stati qui anche ieri», disse il secondo facendo un passo avanti, per guardare meglio Gideon. «O forse era vostro fratello minore. La somiglianza è incredibile.»
«Questo è il ragazzo che riesce a comparire dal nulla?» chiese l’altro. Entrambi fissarono Gideon a bocca aperta. Erano vestiti in maniera simile a Gideon e Madame Rossini evidentemente ci aveva azzeccato: l’uomo rococò amava i colori. Questi avevano abbinato turchese a fiorellini lilla con rosso e marrone e uno portava veramente una finanziera giallo limone. L’insieme avrebbe dovuto risultare orripilante, eppure aveva qualcosa di originale. Era soltanto un tantino vistoso.
Entrambi portavano parrucche che formavano boccoli simili a salsicce sulle tempie e avevano sulla nuca una coda legata con un nastro di velluto.
«Diciamo che conosco passaggi di questa casa che a voi non sono noti», disse Gideon con un sorrisetto arrogante. «Io e la mia accompagnatrice dobbiamo parlare con il Maestro. È una questione molto urgente.»
«La parola d’ordine?»
Quark edit bisquitis. O qualcosa del genere.
«Qua redit nescitis», disse Gideon.
Ecco, più o meno.

redWhere stories live. Discover now