Costole

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Spesso la mia gabbia toracica non serve solo a proteggere i miei organi interni. Spesso le costole, da protezione, diventano fredde e insopportabili sbarre di una prigione che vedo solo io. Quando la trasformazione ha atto quasi non lo percepisco. Solo più tardi, troppo tardi, mi rendo conto che la pressione dell'aria sembra essere aumentata. C'è una rigidità e un peso sul mio petto che fino pochi minuti fa non c'era.

Cercare di sfuggire è impossibile: perché lo capisci che quella gabbia non è fatta di ossa ma di sensazioni di ansia, di sfiducia e di terrore; malessere.

Sì c'è anche il terrore. La paura del domani, del futuro. Una paura che non dovrebbe esistere, ma che mi condiziona molto di più di altre paure, forse più comuni. Queste ultime le riesco a superare, ma quella per il futuro è una barriera che non riesco ad assottigliare nemmeno un po'. Ogni giorno mi sveglio con il pensiero fisso: "Dove ti vedi tra cinque anni? E tra dieci? Tra venti?" Spesso questa risposta cambia. A volte la risposta è un semplice "Non lo so.".

È chiaro ormai: sono anni che sono alla ricerca di me stesso; sono anni che non mi trovo e che non riesco a vedere nulla oltre la barriera delle mie angosce. Angosce nate da me, ma soprattutto nate dal mondo.

In una realtà dove la gente è individuale ed egoista, io sento di essere individuale e altruista. Troppo altruista (poi magari nell'oggettività dei fatti non lo sono). Ho costruito una maschera, niente di più facile se vuoi mentire a te stesso, per convincere gli altri del fatto che io sia egoista, che non guardi oltre il mio orticello. Ho costruito una maschera e così quelli che sono i miei amici, forse, non mi conoscono davvero. Spero di non essere stato abbastanza bravo. Spero che la mia natura si sia comunque rivelata per quella che è, che si sia notato che i miei "no", all'apparenza risoluti, fossero tramutati nelle azioni in sì. Ma per me costruire maschere è semplice: se sei diverso è la prima cosa che impari con l'adolescenza. Quindi le mie speranze ci sono, ma sono scarse.

Il mio altruismo a volte mi fa del male. Succede infatti che quelle volte schiaccio la mia identità per andare incontro ai bisogni altrui. Sono anni che cerco di non farlo, e sono anni che fallisco. Sto male quando per aiutare, o per non ferire qualcun altro, sopprimo i miei desideri. E lo faccio perché sto male anche se decido di assecondare me stesso; almeno così soffre una persona sola.  Credo che la mia prigione nasca da questa azione, ripetuta e ripetuta.

Quella frase, di cui a volte le persone fanno un usospregiudicato, è la mia frase: "devo imparare a dire di no". Ma come èpossibile imparare se quello di fare stare bene le persone attorno a me è unvalore per il quale sono disposto a sacrificare parti di mestesso? Come riuscire a rimettere i valori nella prospettiva che sento essere piùadeguata?

Non lo so.

"Ma quindi? Dove ti vedi tra 10 anni?"

Se continuo così, mi vedo morto. Non nel senso che mi sarò tolto fisicamente la vita; nel senso che non mi apparterrà.

Dopotutto si sa: la morte è assenza di vita, ma la vita non è sopravvivenza.

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