•capitolo 8•

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Daniel
Non si sarei mai immaginato di trovarmi in camera mia, con le lacrime agli occhi a buttare vestiti alla rinfusa in una valigia trovata chissà dove. Mia madre, dietro di me, mi osserva dallo stipite della porta senza proferire parola.
Finisco di mettere dentro le ultime cose, per poi posare il trolley a terra e recarmi verso la porta. Ci scambiamo degli sguardi, nessuno dei due osa parlare eppure, involontariamente, ci diciamo tante cose. È palese che sia delusa da me, che non mi accetti ma sento come se, in tutta questa merda, cercasse di darmi conforto.
La oltrepasso e nel giro di pochi instanti esco da quella casa che mi ha portato solo sofferenze, dolore, incomprensione, anni di silenzio.
Mi ritrovo in strada mentre il freddo invernale mi attraversa il corpo da parte a parte e congela le lacrime sul mio viso.
In quel momento vengo assalito dalla consapevolezza di essere solo e senza uno straccio di ragione per vivere.
Sento di aver perso tutto, di essere vuoto e privo di uno scopo.
Ho bisogno di risposte.

Ho trascorso le ultime ore a casa di Tom, a cercare di mettere in ordine i pensieri. Ho fatto numerose ricerche ed era riuscito a capire dove viva Dakota, a causa della notorietà del padre. Non ho mai prestato troppa attenzione al migliore amico di Benjamin tranne per delle piccole frecciatine con cui infastidisco con piacere un po' a chiunque.
In questo momento, però, l'ultima cosa che voglio fare era scherzare: necessito di vederci chiaro in quella situazione altrimenti impazzisco.
Quasi senza accorgermene mi trovo davanti a quel portone verde scuro immenso mentre mi fisso con intensità le punte delle scarpe: l'idea di parlare con lui non mi emoziona particolarmente e non avrei mai voluto ma è quasi più forte di me.
Dakota apre la porta e quando il suo sguardo si posa su di me, il suo volto assume un'espressione interrogativa ed incazzata al tempo stesso.
"Che ci fai qui?" Mi chiede con tono gelido. Mi sento quasi in soggezione.
"Dobbiamo parlare" rispondo cercando di emulare il tono di voce, fallendo miseramente perché sembro comunque un fottuto cagnolino terrorizzato.
"Non ho niente da dirti". Fa per chiudere la porta ma prontamente la blocco con la punta delle Vans.
"Allora io parlo e tu ascolti" sembro davvero che lo sto pregando ma in questo momento importa ben poco.
Mi riserva uno sguardo strano: truce ma che nascondeva una sorta di curiosità. Senza dire nulla, mi fa spazio e mi lascia entrare in casa che fortunatamente sembra vuota. Mi invita a sedere al tavolo della cucina mentre dal frigo tira fuori due bottiglie di birra: è decisamente necessaria in quella situazione carica di fin troppa tensione.
Dopo qualche altro instante di puro silenzio, mi invita a spiegare il motivo per cui mi trovo qui; evita di chiedermi come abbia fatto a venire a sapere dove abita.

"Si tratta di Benjamin" inizio e mi chiedo come mai pronunciare quel nome mi crei una sensazione di malessere così grande.
Dakota sembra, se possibile, ancora più turbato di prima.
Rimango in silenzio, perché in effetti non ho domande precise da porgli. O forse si.
"Perché ce l'ho sempre nella testa?"
"Perché mi sento così solo? Effettivamente lo sono"

Poi però, qualcosa di concreto mi viene in mente.
"È stato lui?" Chiedo e so che ha capito perfettamente a cosa mi riferisco.
"Credo dovresti parlare con lui" dice con voce seria e sembra quasi fare un discorso più generale.
"Non credo voglia vedermi" e io non voglio vedere lui? Ridacchio leggermente, ricordando quella terribile scenata avvenuta quel giorno in aula magna. Se ci penso mi viene la nausea.
Lui prende un grande respiro: penso stia provando a contenere il nervosismo.
"Mi stai sul cazzo e voglio che sia chiaro" ottimo, l'importante è cominciare con il piede giusto.
"Ma Ben è la persona più importante della mia vita. E sta male" continua e il sangue nelle mie vene si è ormai congelato del tutto. Cazzo, è come avere davanti mio padre...
Sta male.
Che fosse per colpa mia?
***
Ho perso la cognizione del tempo ore fa, quando sono uscita da casa di Dakota più confuso ed incasinato di prima. Da quel momento, ho iniziato a vagare per le strade della città che si facevano via via più buie.
Non so dove andare, non so che fare e, giusto per completare il quadro, ho iniziato a piangere senza motivo e ho finito le sigarette. Mi rendo conto che la mia vita è una gigantesca montagna di merda e quindi, preso dal mood negativo, sono entrato in uno squallidissimo bar di periferia e ho iniziato a ingurgitare alcool fino ad avere la certezza di non ricordare più nulla.

Sarà circa l'una di notte quando sento la testa fare male da morire e un gusto strano e disgustoso in bocca. Mi rendo conto di essere rimasto il solo in questo buco di culo che puzza come il cesso di una stazione d servizio. Una donna oltre il bancone mi lancia uno sguardo preoccupato e capisco di essere uno spettacolo decisamente pietoso: con i capelli sparati in tutte le direzioni, le occhiaie e le lacrime ormai secche sulle guance. Afferro il mio telefono, sperando di ricevere un messaggio che mi comunica che tutto questo è un fottuto scherzo del destino e invece non succede nulla.

Il display è illuminato dal suo nome, il suo numero di telefono e una foto che ho messo per il suo contatto. È uno scatto fatto dopo l'ennesima notte insieme dove, senza accorgersene, durante il sonno si è stretto contro il mio petto e mi sembrava una scena decisamente troppo tenera per non immortalarla. Non sa che ho quella foto e che, nelle ultime ore, mi trovo a fissarla più spesso di quanto dovrei.
In un attimo mi trovo con il telefono poggiato all'orecchio: lo sto chiamando e mi sento ridicolo. La testa pulsa e le gambe mi fanno male.
"Pronto?" Chiede una voce roca, più roca del solito. Forse stava dormendo.
Quanto mi sei mancato. Non ho la forza di dire nulla, contemplo il silenzio.
"Dan?" Chiede e riesco quasi a vedere le sue labbra pronunciare il mio nome.
"Hei" sussurro e non volendo,sbiascico tantissimo.
Sento dei rumori di sotto prima di sentire di nuovo la sua voce.
"Dimmi" mi dice con tono paziente.
"Volevo sentirti" ormai il filtro bocca-cervello è andato a farsi fottere. Sto dicendo esattamente quello che penso e non me ne sono ancora pentito.

"Sei ubriaco" non è una domanda e annuisco per poi ricordarmi che non può vedermi e allora confermo e basta.
"Dove sei?" Mi chiede e mi domando con quale pazienza sia rimasto e non mi abbia sbattuto il telefono in faccia.
"All'Alibi". Mi stupisco di essermi ricordato il nome, continuo a biascicare.
"Vengo a prenderti" dice. Non vorrei che mi vedesse in queste condizioni ma non ho la forza di dirgli nulla e poi, in tutta onestà, non aspettavo altri se non lui. Voglio lui in questo momento. Cosa mi sta succedendo? È la prima volta che l'alcool ha un effetto così devastante su di me.
"Non attaccare" lo prego: necessito della sua voce perché potrei svenire da un momento all'altro.
"Resto" e questo mi basta.
Passano i minuti, io ho la testa abbandonata sul bancone, il telefono all'orecchio e sento rumori confusi: il motore dell'auto, il traffico cittadino nonostante l'orario indecente.
"Mi viene da vomitare" proferisco e mi sento un bambino piccolo che nel cuore della notte va a disturbare la mamma che dorme.
"Vomita, tranquillo. Io sto arrivando" mi dice con tono apprensivo: non ricordo l'ultima volta che qualcuno si è rivolto a me in questo modo. Forse non è mai successo.
Non faccio in tempo a pensare a qualsiasi cosa che mi parte dalla parte bassa della gola un conato più forte che non riesco a reprimere. Mi precipito fuori dal locale e mi piego sulle ginocchia, rimettendo il miscuglio di drink ingerito. Ho il telefono tra le mani e la conversazione con lui ancora aperta. In dolore alle gambe arriva a tutto il corpo mentre un gusto disgustoso si propaga per la bocca. Intanto ho ricominciato a piangere senza motivo.

Sento un auto venire verso di me e spero vivamente sia lui perché rischio di stramazzare sull'asfalto freddo e grigio. Per fortuna, pochi istanti dopo, sento un mano prendere la mia, poggiata sul petto reclinato in avanti e l'altra sulla mia spalla. La accarezza piano, forse nel tentativo di calmarmi.
Quando riprendo fiato alzo leggermente la testa e lo vedo: il mio angelo.
Appare davanti ai miei occhi come una sorta di miraggio.
Sto ancora piangendo mentre mi accascio al suo corpo e lui, prontamente, mi tiene con un braccio avvolto attorno alla mia vita mentre io tengo il mio sulle sue spalle.
Restiamo in quella posizione davanti al locale.
"Che hai combinato?" Chiede ma forse lo chiede a sé stesso e non a me, a giudicare dal tono decisamente basso.
"Ti porto a casa tua?" Mi chiede senza porre fine a quel contatto così rilassante e calmante. La sola idea di andare a casa mia, mi fa venire di nuovo da vomitare.
Scuoto energicamente la testa per esprimere il mio dissenso.
"Da te" mugugno sulla sua spalla, bagnandogliela con le mie stesse lacrime. Non chiede spiegazioni, e gliene sono grato, e mi accompagna alla sua macchina. Mi apre la portiera del passeggero e mi fa accomodare sul sedile, allacciandomi poi la cintura nel buio della notte.

"Ben" lo chiamo a voce bassa e con la testa abbandonata sul sedile: mi fa male il collo e sento le vene pulsare.
Lui alza la testa quando ha finito di sistemare la cintura di sicurezza. Riesco a vedere i suoi occhi anche in questa situazione: scuri ma limpidi e cristallini.
"Sei tutto quello che mi rimane" proferisco e non capisco neanche perché lo stia facendo. Sento che è giusto così.
Lui sembra trattenere il fiato, mi regala un piccolo sorriso e non dice nulla.

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