Capitolo 1 - L'inizio

65 10 0
                                    

Il mio nome è Logan Mercer. Ero una persona normale, con una vita normale. Almeno, fino a quel giorno... ma andiamo con ordine.

03 Aprile 2018

Quella era una mattina come tutte le altre: i primi bagliori dell'alba avevano inondato la stanza di una luce rosata e affianco a me Iris si stava svegliando. Mi sedetti sul bordo del letto per schiarirmi le idee: avevo un sacco di cose da fare quel giorno, come sempre del resto. Ero di apertura... una seccatura doversi svegliare presto per tirare su la serranda; l'unica ragione per cui facevo volentieri quel turno era una sola: poter guardare Iris mentre dorme, è la cosa più bella al mondo. I suoi capelli castani incorniciavano il suo viso candido e scendevano lungo le spalle, che seguivano i movimenti del suo respiro. Okay... sembro una quindicenne alle prese con la sua prima cotta, vero? Ma che ci posso fare, mi fa sempre questo effetto. Quando parlo di lei divento un'altra persona.
Comunque. Le dieci un bacio sulla fronte, lei si raggomitolò sotto le coperte mormorando qualcosa che non capì.
Andai a farmi una doccia e poi in cucina per preparare la colazione: toast e succo d'arancia, ovviamente spremuto a mano.
Tutto d'un tratto uno zombie iniziò ad avvicinarsi in modo minaccioso... ma che dico, era solo Iris appena sveglia.
«Buongionno» mi disse con una vocina assonnata.
«Buongiorno, Samara» risposi ridacchiando e allargando le braccia.
Lei mi abbracciò; mi arriva al petto, è così carina. Mi baciò alzandosi sulle punte.
«Dormito bene?»
«Si, e tu?»
«Beh, ti ho abbracciato a mo' di peluche per tutta la notte...»
«Ecco perché non mi sentivo più il braccio appena sveglio.»
«Davvero? Scusa, scusa, scusa...» e come sempre si lanciò in un freestyle di scuse abbracciandomi.
«Hey... stavo scherzando. Ho dormito bene, davvero.»
Ci sedemmo a tavola e iniziammo a mangiare.
«So che premo un tasto dolente, ma ti ricordi che giorno è oggi, vero?»
«Si» risposi con tono più cupo.
«Quindi... cosa farai?»
«Quando smonto dal turno passo al cimitero e vado direttamente da mia madre. Ci becchiamo lì?»
«Va bene.»
Mi alzai finendo l'ultimo boccone del toast... Iris era appena a metà del suo, lenta come sempre.
«Muoviti, sennò farai tardi a lavoro, lumachina.»
Mi misi la giacca di pelle e mi guardai allo specchio. «Che figurino» mi prese in giro Iris dalla porta della cucina.
La guardai, abbozzai un sorriso e uscì di casa.
Iris mi faceva sorridere, ma la tristezza in me aumentava. Anche se erano passati due anni, la ferita era ancora fresca.

Arrivai al bar, presi le chiavi e alzai la saracinesca. Accesi le luci, misi le prime brioches nel forno e accesi la macchina per il caffè.
Poco dopo entrò il primo cliente, un vecchietto che vedevo ogni mattina. Si chiamava John ed era in pensione da almeno una decina d'anni, ma aveva ancora i ritmi di quando lavorava in fabbrica: si svegliava presto la mattina e passava per il bar, chiedeva sempre una brioche vuota e un cappuccino. Era quasi sempre il primo cliente.
«Hey John, il solito?»
Non sembrava essersi accorto della mia presenza, da quando era entrato aveva uno sguardo assente. Ripetei la domanda con il tono di voce che si usa per farsi notare.
«Qualcosa di forte, per favore. Ho bisogno di dimenticare.»
«Guarda che hai una certa età.»
«Non hai saputo dell'altro ieri? Un'altra schifosa creatura ha attaccato proprio a Hell's Kitchen, dove abita mio figlio...» prese un respiro profondo, si sentiva il peso nelle sue parole. «Nessuno dovrebbe mai vedere il proprio figlio morire.»
«Io non... Mi dispiace» risposi con distacco, non volevo lasciarmi coinvolgere emotivamente, sarò sembrato stronzo ma sono fatto così.
Non che non mi dispiacesse, anzi possiamo dire che ero quasi affezionato a quel vecchietto, e so cosa significa perdere qualcuno.
«Se pensi che ti accontenterò ti sbagli, vecchio. Non sei il primo che viene qui con l'intento di annegare i suoi pensieri nell'alcool, non mi assumo questa responsabilità. Sai com'è ridotto il mondo adesso, sai com'è la nostra attuale realtà.»
John mi guardò con le lacrime agli occhi, non volevo sembrare indifferente, ma consolare qualcuno non è mai stata la mia specialità.
«Senti Jo, so cosa si prova... Non è bello... Fa male... Ma devi resistere, è quello che vorrebbe tuo figlio no? Prima o poi torneremo alla normalità... Spero.»
Preparai un caffe corretto e una brioche liscia.
«Toh, è il massimo che posso fare.»
Accennai un sorriso che lui ricambiò, ma i suoi occhi erano pieni di dolore.

Passa la giornata tra un cliente e l'altro, il mio pensiero era fisso su mio padre e su quello che il vecchio mi aveva detto. Al piccolo televisore del locale continuavano a parlare del disastro dell'altro giorno:
"L'attacco del mostro ha causato 15 feriti, di cui 5 gravi, e 8 morti. Domani partiranno le riparazioni ai danni di Hell's Kitchen. Gli enti competenti sono già operativi, ora si spera in una pausa da parte delle creature anomale. L'esercito cerca di fare il possibile per affrontare la minaccia e chiede di non cadere nel panico."
La solita frase, ogni giorno, ogni anno... com'è possibile che non sia ancora cambiato nulla? Da quando sono comparsi i mostri sembra che la gente al posto che cercare di capire cosa sono e come eliminarli stia invece cercando di imparare a conviverci. Ho sempre pensato che noi umani siamo un branco di idioti ma questo è troppo. Ci stiamo davvero abituando al terrore al posto che affrontarlo? Perché nessuno non ha ancora fatto niente di concreto?

Erano le tre, mi sistemai e mi diressi verso il cimitero. Arrivato lì rimasi mezz'ora a fissare la tomba di mio padre, rivivendo nella mia mente ciò che era successo quella sera. Ricordo perfettamente la macchina distrutta e fuori dal finestrino, un mostro di almeno due metri massacrava mio padre. Ero paralizzato dalla paura e mi ero sentito un codardo. Avrei voluto fare qualcosa. A volte mi chiedo se l'avessi potuto salvare. È in quei momenti che senza Iris non potrei andare avanti. Lei ha fatto tanto per me, per aiutarmi a superare il trauma. Ma soffro ancora molto, soprattutto in giornate come questa.
Notai che un mazzo di fiori freschi era stato sistemato con premura in un vaso di vetro in mezzo alla ghiaia, doveva essere stata mia madre. Lei passava di lì quasi ogni settimana. A volte mi era capitato di accompagnarla e più di una volta lacrime silenziose le avevano solcato le guance, scavando rughe che nemmeno il tempo sarebbe stato capace di creare. Superare era difficile, ma dimenticare, impossibile.

Salii in macchina per andare a casa di mia madre, girai a destra della quinta strada e mi trovai a Madison Avenue, quando la radio iniziò a strillare:
"Interrompiamo il brano per un annuncio urgente: è stata avvistata una creatura anomala nei dintorni di Park Avenue. A tutti gli automobilisti in zona, allontanarsi immediatamente. I militari arriveranno a breve!"
In quel momento capii che il traffico non era un normale traffico newyorkese, non feci in tempo a fare retromarcia che le macchine davanti a me vennero scaraventate a destra e sinistra da un bestione di due metri che cercava di farsi spazio. Presto me lo trovai davanti e senza esitare fece cappottare anche me. Il parabrezza contro l'asfalto si ruppe in mille pezzi e io persi i sensi. Quando mi risvegliai mi sembrò di rivivere la scena di due anni fa: mi trovavo in macchina, sanguinavo ed ero a testa in giù.
Sganciai la cintura e presi a calci la porta per cercare di uscire; la macchina era in fiamme e avevo poco tempo. Strisciai subito fuori dal veicolo, mi guardai intorno e vidi il mostro di spalle, stava spingendo qualcuno contro ad un muro, ne ero abbastanza certo. Finché quel malcapitato lo avesse tenuto impegnato, sarei potuto scappare. Iniziai a correre nella direzione opposta, ma, dopo qualche falcata, mi bloccai. Sentivo una voce debole, paralizzata dalla paura, piagnucolare e chiedere aiuto. Osservai le macerie cercando di capire da dove provenisse quel lamento. Divenne un grido di aiuto e allora mi voltai. Era lì, piccolo e indifeso, con le mani sulla faccia e il busto girato verso il muro. Un bambino. Quello stronzo se la stava prendendo con un bambino.
Non ricordo bene cosa pensai in quel momento, so solo che volevo scappare e probabilmente se l'avessi fatto ora non sarei così, ma non potevo permettere che la mia codardia prevalesse. Sapevo che se me ne fossi andato non me lo sarei mai perdonato, due anni prima avevo scelto di rimanere nascosto in auto al posto di provare a salvare mio padre e tutt'ora me ne pento; in quel momento decisi che nessuno sarebbe più morto davanti a me.

Levai la giacca ormai ridotta a brandelli, corsi verso il mostro, un essere con il muso simile a quello di un alligatore, un grosso guscio spinato e una lunga coda.
Raccolsi un tubo di metallo che si era staccato dal muro di un palazzo e urlai:
«LASCIALO STARE, BASTARDO!»
Provai a colpirlo, inutile dire che il tubo si piegò, la creatura si girò nella mia direzione e mi ruggì contro, poi con un ampio gesto del braccio mi scaraventò contro il muro di un edificio. Almeno il bambino riuscì ad allontanarsi.
Mi alzai, il mostro corse nella mia direzione ma anche se di poco, mi scansai, presi un mattone da terra e glielo tirai in fronte, e ovviamente si frantumò.
Dopodiché lui cercò di colpirmi. Lo schivai le prime due volte ma alla terza finii qualche metro più in là. Il mostro si avvicinò e cercò di calpestarmi, io riuscii a schivare il "piede" -se così si può definire quella sottospecie di zampa demoniaca- ma lui mi prese, mi sollevò e... Ricordo molto dolore seguito dal buio più totale... avevo gli occhi aperti ma ero come accecato, sentivo i suoi lunghi artigli scavarmi nel petto e un liquido denso e caldo mi inondò la gola. In bocca sentivo il sapore metallico del sangue, ma più di ogni cosa, a sovrastare ogni sensazione, c'era la paura.

La morte era da sempre la mia più grande paura, e io, dovevo affrontarla.

The Legend of ShadowDove le storie prendono vita. Scoprilo ora