12° Capitolo

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Gli Angeli Vendicatori

Durante tutta la notte viaggiarono per sentieri tortuosi e irregolari, cosparsi di rocce. Piú di una volta smarrirono la via, ma la ritrovarono sempre, grazie alla profonda conoscenza di Hope per le montagne. Quando sorse il mattino, un panorama selvaggio e meraviglioso apparve ai loro occhi. Da ogni parte, erano circondati da grandi cime ammantate di neve. I pendii rocciosi erano tanto scoscesi, da un lato e dall'altro, che i larici e i pini parevano sospesi sulle teste dei viandanti, come se il minimo soffio di vento potesse farli precipitare. Né quel timore era del tutto immaginario, poiché l'arida valle era cosparsa, per l'appunto, di alberi e di macigni caduti dalle montagne circostanti. Persino al loro passaggio, piú di un macigno rotolò giú con fragore, spaventando i cavalli che si lanciarono al galoppo.
Col sorger del sole a oriente, le cime delle grandi montagne parvero accendersi l'una dopo l'altra come i lampioni di una festa. Il magnifico spettacolo esaltò i tre fuggiaschi e diede loro nuova energia. In un punto, dove un torrente impetuoso sbucava da una gola, sostarono per abbeverare i cavalli e per riposarsi. Lucy e suo padre avrebbero voluto rinfrancarsi piú a lungo, ma Jefferson fu inamovibile. - Ormai, saranno già sulle nostre tracce - spiegò. - Tutto dipende dalla nostra velocità. Se riusciamo ad arrivare a Carson, possiamo riposarci per il resto dei nostri giorni.
Per tutta la giornata proseguirono attraverso i monti, e la sera calcolarono di essere a piú di trenta miglia dai nemici. Quando scese la notte, trovarono un crepaccio al riparo dei venti, e là, raggomitolati l'uno accanto all'altro, si concessero qualche ora di sonno. Ma prima dell'alba erano già di nuovo in cammino. Non avevano visto tracce di alcun inseguitore, e Jefferson cominciava a sperare che fossero sfuggiti una volta per tutte alla terribile organizzazione di cui
si erano attirati l'inimicizia. Non sapeva, il povero giovane, fin dove potesse giungere quella mano d'acciaio, né quanto fosse prossimo il momento in cui si sarebbe abbattuta sui fuggiaschi per annientarli. A metà del secondo giorno di viaggio, le scarse provviste della piccola comitiva cominciavano ad esaurirsi, ma il giovanotto non se ne preoccupò. Fra le montagne la cacciagione abbondava, e spesso egli si era trovato a dipendere dal proprio fucile per procurarsi il necessario sostentamento. Trovato un avvallamento, raccolse un mucchio di rami sottili e preparò un bel fuoco, affinché i suoi compagni potessero riscaldarsi, dato che si trovavano a quasi duemila metri di altezza e l'aria era pungente. Legate le bestie e preso commiato da Lucy, Jefferson si mise il fucile in spalla e partì alla ricerca di qualche capo di selvaggina. Volgendosi un'ultima volta, vide il vecchio e la ragazza raggomitolati accanto al fuoco, mentre i tre animali se ne stavano immobili in un luogo riparato. Poi una roccia gli precluse la visuale. Hope percorse un paio di miglia da un burrone all'altro, senza successo, quantunque vari indizi indicassero la presenza di numerosi orsi nella zona. Finalmente, dopo due o tre ore di ricerche inutili, il giovanotto stava per ritornare indietro, scoraggiato, quando, guardando in alto, vide qualcosa che lo fece fremere di gioia. Su un picco, a meno di cento metri al di sopra della sua testa, stava immobile una pecora selvatica con gigantesche corna. L'animale non si era accorto del cacciatore, così Hope ebbe modo di prendere la mira con cura. Un minuto dopo, la pecora spiccò un balzo in aria, restò un attimo in bilico sull’orlo del precipizio, poi precipitò nella valle sottostante.
Pesava troppo perché Hope potesse caricarsela intera sulle spalle. Quindi si accontentò di tagliare una coscia e parte di un fianco, e poi, con quel trofeo, si dispose a raggiungere Ferrier e Lucy, poiché cominciavano già a calare le ombre della sera. Si era appena incamminato quando si rese conto della difficoltà che gli stava di fronte.
Nell'entusiasmo di aver trovato la selvaggina era andato al di là dei burroni che conosceva a menadito, e ora non gli sarebbe stato facile rifare il cammino percorso. La valle in cui si trovava era però divisa in varie gole tanto somiglianti l'una all'altra, che era imp ossibile distinguerle. Ne seguí una per oltre un miglio, ma giunse a un torrente montano che
era sicurissimo di non aver mai visto.
Convinto d'avere sbagliato, ritornò indietro e provò un'altra strada, ma con analogo risultato. L'oscurità avanzava rapidamente, ed era quasi notte quando Jefferson si trovò su un sentiero che gli era familiare. Anche allora non gli fu facile mantenersi sulla pista giusta poiché la luna non era ancora sorta e i picchi circostanti accentuavano l'oscurità.
Stanco per il fardello che portava e per le fatiche della caccia, procedeva facendosi animo al pensiero che ogni passo lo avvicinava a Lucy, e che portava quanto bastava per cibare la comitiva fino alla fine del viaggio. Ormai, era all'imbocco della valletta dove aveva lasciato i due, e anche al buio riusciva a riconoscere la linea delle cime che la circondavano, John e Lucy dovevano aspettarlo con ansia, pensava Hope, poiché era stato assente quasi cinque ore. In preda a una grande allegrezza, posò un momento il fardello, si portò ambe le mani alla bocca e lanciò un richiamo per annunciare il suo arrivo, poi tese l'orecchio aspettando una risposta. Udì soltanto il proprio grido riecheggiato dalle gole silenziose. Ripeté il richiamo piú forte, ma, anche questa volta, gli amici che da poco tempo aveva lasciato non gli diedero risposta. Un vago timore cominciava a insinuarglisi nel cuore, ed egli riprese il cammino a precipizio, abbandonando il frutto della caccia, tanto era agitato. Oltrepassata una curva del sentiero, giunse in vista del fuoco. Vi era ancora un mucchio di tizzoni incandescenti, ma era chiaro che il fuoco non era stato piú alimentato dopo che egli si era allontanato. Tutt'attorno regnava un silenzio di morte. Mentre il dubbio angoscioso diventava certezza, Hope cominciò a esplorare il luogo. Non vi era piú essere vivente presso i resti del fuoco: la fanciulla, l'uomo, i cavalli e il mulo, tutti erano scomparsi. Era chiaro che, durante l'assenza di Jefferson, era accaduto qualcosa... una disgrazia che aveva travolto tutti senza, tuttavia, lasciare tracce. Stordito da quel colpo terribile, Jeffersono Hope dovette appoggiarsi al fucile per mantenere l'equilibrio. Ma egli era essenzialmente un uomo d'azione, e ben presto si riebbe da quella crisi di sconforto. Afferrò un pezzo di legno mezzo carbonizzato dai resti del fuoco, vi soffiò sopra finché non ne scaturi una fiamma e, con quella torcia improvvisata, si mise a esaminare il minuscolo accampamento. Il terreno era segnato dagli zoccoli di molti cavalli, chiara prova che un gruppo numeroso aveva raggiunto i fuggiaschi. All'esame delle tracce, risultava chiaro che, in seguito, la comitiva era ritornata verso Salt Lake City. Aveva riportato con sé i Ferrier? Jefferson si era già quasi persuaso che fosse così, quando il suo sguardo si posò su qualcosa che quasi gli mozzò il fiato. Di fianco all'accampamento spiccava un monticello di terra rossiccia che, poco prima, non esisteva. Era impossibile non riconoscerlo per una tomba scavata e colmata di fresco. Avvicinatosi, il giovane cacciatore vide che un bastoncino di legno era stato piantato sul tumulo e che un foglietto di carta era imprigionato in una spaccatura del legno. L'iscrizione sul foglietto era breve, ma significativa:

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