Il letto a baldacchino di pietra tremò, le tende di velluto cremisi, più nere che rosse, ondeggiarono con violenza. Ade si mise a sedere infastidito da tanto frastuono, scostò il lenzuolo nero come un cielo privo di stelle, e balzò a terra.
Era abituato a chi disturbava il suo sonno, ai lamenti degli spiriti che si levavano dalle valli nebbiose, dalle proteste di chi, ancora non rassegnato al proprio destino, si scagliava contro Caronte, traghettatore delle anime. E anche ai sospiri di sollievo di quelle che oltrepassavano il fiume Lete e si dirigevano beate tra i Campi Elisi.
Tuttavia, pensava che almeno nell'antro più riparato del suo regno sotterraneo, nel suo stesso talamo solitario, avesse diritto a un po' di quiete.
Si infilò la tunica scura e si scostò su un lato i ricci ribelli dei lunghi capelli. Sapeva bene che i lamenti delle anime non potevano giungere fino a lì e che il tremore era stato causato da Encelado, il terribile gigante imprigionato sotto l'Etna.
Il bel vulcano sulla fertile terra siciliana non distava poi molto dall'ingresso del suo regno, e ogni tentativo di ribellione di Encelado aveva come risultato uno scoppio di lava e un piccolo terremoto, le cui vibrazioni riuscivano a disturbargli il sonno e a farlo irritare oltremodo. Si domandò per l'ennesima volta perché non fosse Efesto a occuparsi delle intemperanze dell'ingestibile creatura, ma forse quello era troppo impegnato a spiare Afrodite e ad assicurarsi che il numero dei suoi amanti non diventasse troppo oltraggioso.
A grandi falcate percorse i corridoi di pietra illuminati dalle luci pallide delle torce, arrivò fino al pioppo bianco che segnava l'ingresso nel Tartaro, ma prima di poter tornare in superficie il profilo di un'ombra lo fece fermare.
Riconobbe la donna, i lunghi capelli neri acconciati in un fermaglio a forma di mezzaluna, la torcia con cui era in grado di guidare i vivi e i morti nel suo regno, lo sguardo penetrante di chi passava dalla superficie alla profondità della terra fino al cielo senza il minimo turbamento.
«Ecate», la chiamò.
La dea si voltò, gli occhi accesi di rabbia. «Fino a quando dobbiamo andare avanti in questo modo? Neanche qui possiamo stare tranquilli», sibilò.
«Lo so, ma placa la tua ira, ho intenzione di risolvere questa questione una volta per tutte».
Un sorriso malizioso increspò le labbra di lei. «Lo dici sempre, ma non lo fai mai. Sei più buono di come ti dipingono, nonostante il tuo aspetto».
Ade aggrottò la fronte. «Che avrebbe il mio aspetto che non va?»
«Nulla», gli si avvicinò suadente, «se vuoi saperlo, sei il mio genere, ma le ninfe tanto delicate potrebbero avere paura di te».
Ade la spinse via con la mano. «Non ho tempo per le tue chiacchiere», la liquidò.
Non aveva bisogno che Ecate, sua nipote, gli ricordasse della sua solitudine, del suo aspetto imponente, del destino che gli era stato riservato dagli dei. Eppure aveva solo se stesso da biasimare. Quando i suoi fratelli Zeus e Poseidone avevano iniziato a litigare per contendersi le parti del mondo su cui dominare, lui aveva temuto il peggio: la distruzione di tutto, guerre che avrebbero devastato la vita degli uomini. Zeus e Poseidone non sembravano interessati alle conseguenze, anzi, erano già pronti a corrompere le altre divinità per convincerle a schierarsi da una parte o dall'altra. E lui, Ade, che era per tutti il dio più temibile, quello che tutti accoglie e non certo per un banchetto conviviale, aveva deciso di correre ai ripari, di dire a entrambi di non preoccuparsi e che il regno peggiore, quello che nessuno voleva, lo avrebbe preso lui.
Ancora ricordava i volti sorpresi dei due e subito dopo il modo in cui si erano deformati in una smorfia di derisione, consapevoli che era stato uno sciocco a offrirsi e che ne avrebbe pagato il fio per il resto dell'eternità. Chi avrebbe voluto diventare lo sposo o la sposa di Ade?
Davanti al pioppo bianco, che segnava l'ingresso del suo regno, si avvolse nel suo mantello scuro e si volatilizzò fino a raggiungere l'Etna. Come aveva intuito dallo scossone che lo aveva svegliato poco prima, la terra era scossa dai tentativi di Encelado di sottrarsi al suo destino, a cui Zeus l'aveva condannato per fargli scontare il peccato di superbia con il quale il gigante aveva desiderato scalzarlo dal trono dell'Olimpo.
La montagna sputava fuoco, che in fiotti di lava esplodeva verso il cielo per poi ricadere sui versanti rocciosi. Ade si calò nel cratere, uno degli ingressi attraverso il quale era possibile accedere al regno del sottosuolo. In un angolo il gigante ribelle faceva triste mostra di sé, incatenato e tuttavia ancora infuriato. Ade lo vide sollevare una mano, tendere la catena.
«Aiutami, Ade», lo pregò il gigante, «so quanto odiosi ti siano i tuoi fratelli. Con la loro arroganza si sono presi il meglio che il mondo può offrire, e hanno relegato me tanto te alla prigione del buio, ma noi due insieme potremmo...»
«Taci», lo interruppe lui con voce possente. «Come osi paragonarti a me, che sono sangue divino, pari tanto a Zeus quanto a Poseidone. Sono colui che tutti accoglie, non scordarlo».
«Tutti devono passare da te, è vero, ma nessuno lo vorrebbe», disse Encelado con la strafottenza che aveva fatto infuriare Zeus a suo tempo.
Ade puntò il suo bastone a terra, il suo sguardo di onice si accese come la lava incandescente. Encelado impallidì.
«Non mi provocare, se non vuoi assaggiare la nebbia del Tartaro», sibilò Ade. Vide il gigante stringere la catena, ma rinunciare a ogni reazione. «Non voglio che la pace del mio regno venga turbata», gli ordinò.
L'altro annuì, sconfitto, almeno fino a quando non gli fosse tornato il coraggio di smuovere l'Etna.
Quando Ade tornò in superficie, sulle pendici del Vulcano, il carro di Apollo era giunto allo zenit della volta celeste. La luce inondava i campi fecondi, il mare pareva una tavola smaltata, segno che Poseidone stava avendo una giornata tranquilla. Tra gli alberi frondosi Ade scorse le gemme ancora chiuse e quelle che si erano aperte in fiori dal colore dell'aurora. Ne sarebbero nati frutti squisiti in grado di stuzzicare persino l'appetito degli dei.
Sulla sommità della montagna, Ade era in grado di scorgere la Grecia, Eleusi e la piana che la circondava. Sentì sul viso la brezza marina, tiepida e fragrante; il senso di nostalgia per la vita a cui aveva rinunciato pur di sedare una guerra divina gli strinse il cuore. Ma non poté crogiolarsi nei suoi sentimenti. Il profumo di mirto, troppo intenso per appartenere a un mortale, lo riscosse. Presto udì il fruscio di una tunica delicata, la leggerezza di una creatura che tutti credevano simbolo di amore, ma che sapeva celare invidie e capricci.
La mano affusolata e candida di Afrodite si posò sulla sua spalla. «Hai messo al suo posto quel gigante?»
Ade si voltò, ancora irritato. «Ho fatto quello che avrebbe dovuto fare tuo marito, Efesto». La vide ritirare la mano, un 'ombra offuscare le sue iridi di miele.
«Lui ha molto da fare», tentò di giustificarsi lei.
Ade desiderò cancellare dal suo volto il sorriso che ancora le piegava le labbra. Che ne poteva sapere Afrodite delle sofferenze di un dio condannato alla solitudine? Considerato potente e temibile, eppure accolto ogni sera dal talamo vuoto?
Non riuscì a trattenere le parole che gli rotolarono via dalle labbra. «Ha da fare, certo. Deve controllare che tu non lo faccia diventare lo zimbello dell'Olimpo, passando di talamo in talamo». Ottenne il suo scopo: dal viso di lei scomparve ogni traccia di sorriso, le labbra divennero un'unica piega di cui non si riconoscevano più i sensuali contorni.
Afrodite strinse la veste candida in un pugno. «Vivere sotto terra ti ha fatto dimenticare le norme della civiltà, ma saprò io cosa fare per aiutarti», sibilò.
«Di te non ho nessuna paura». Ade rise, e le voltò le spalle.
Non la udì dire tra i denti: «Avrai paura delle frecce di mio figlio».
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Ade (gay version)
RomanceCompleta su Wattpad. Ade è il dio degli Inferi. Potente e terribile, lo chiamano gli uomini. Nessuno osa avvicinarsi a lui, nessuno scenderebbe mai nel suo regno per diventarne lo sposo. Ade sopporta la solitudine, sulle sue spalle grava il peso di...