Parte 15 -Gelosia

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Sulla lunga tavola il vino color rubino luccicava nelle brocche. A Koros, però, non ricordò pietre preziose, ma il mare di sangue, come spesso lo aveva visto al tramonto o macchiato dalla furia di Poseidone. Nei piatti abbondava la frutta, l'uva, le mele, le mandorle, ma non c'era traccia dei chicchi rossi delle melagrane.

Ade sedeva al capotavola. Davanti a lui un lungo rettangolo di legno era imbandito, come se fosse un giorno di festa.

Koros osservò lo sguardo cupo del dio, i gesti lenti con cui spezzava il pane e se lo portava alla bocca. Eppure nelle sue spalle scorgeva la tensione, come la corda di un arco pronta a scoccare la freccia mortale in qualsiasi momento. Non ebbe il coraggio di sedergli accanto, e si sistemò al lato opposto. Tuttavia, non importava quanto lunga fosse la tavola, quante stoviglie e cibi li separassero, Koros sentiva addosso gli occhi penetranti di Ade. Un solo sguardo del dio bastava ad agitargli l'animo.

Era giunto alla sala dei banchetti con il cuore in subbuglio, non sapendo cosa aspettarsi. Aveva camminato nei corridoi, poi lungo le valli, ritrovando le nebbie famigliari, i lamenti delle anime che non gli davano più fastidio. Le anime stesse si inchinavano al suo passaggio, così come Cerbero e Caronte, come se anche lui fosse il padrone del regno. Ma Ade non aveva più fatto cenno alla cerimonia nuziale con la quale il suo ruolo sarebbe stato consacrato da tutti gli dei e accettato dagli uomini.

Prese anche lui del pane, poi una focaccia di orzo. Le prime sere in cui si era seduto a tavola con Ade, il dio aveva cercato di fare conversazione, di essere gentile, ma Koros non gli aveva mai dato spago. Come avrebbe potuto? Era stato rapito e nel profondo del cuore lo odiava. Lo odiava anche perché la sua vicinanza gli faceva sentire sensazioni nuove e spaventose. Adesso avrebbe dato tutto affinché il dio gli rivolgesse la parola.

Trovò il coraggio di parlare per primo: «Mentre venivo qui, guardavo la fiumana di anime e ho capito di non provare più alcuno strazio per loro», gli confidò.

Ma la reazione di Ade non era quella che si aspettava, non lo confortò, anzi sembrò trarre piacere dalla notizia. «Accetta chi sei: il signore degli Inferi!»

«Mai!», si ribellò lui.

Ade lo fissò, sollevò piano un calice.  «Allora sei come le altre creature che vivono qui, come quei concubini che tanto disprezzi. Neanche loro, sai, provano pietà per le anime. Loro non vorrebbero mai lasciare il mio fianco. Brindiamo a questo».

«Perché sei venuto a riprendermi se non sopporti la mia vista?»

Ade sollevò lo sguardo. «Quando mangi quel frutto, sono obbligato a farlo. Ci sono leggi divine che nessuno, neanche gli stessi dei, possono contraddire».

Koros strinse i pugni. «Sei venuto davvero solo per questo? Lascia che sia Ecate, allora, a fare gli onori di casa».

«Ecate va e viene e non può occuparsi di te», sibilò Ade. «Non preoccuparti, un mese passa in fretta e presto ti ricongiungerai ad Apollo, il dio del sole, il dio della luce. Se avessi saputo che gradivi tanto montare sul suo carro, non sarei intervenuto per separarvi la prima volta».

Koros ingoiò il nodo che gli stringeva la gola. Afferrò un calice e bevve un sorso di vino per placare la rabbia e il dolore, ma non gli avrebbe dato la soddisfazione di piangere. Ade lo aveva usato, non aveva mai voluto renderlo suo sposo, ma solo un concubino con cui sfogare i suoi istinti. Per il dio degli Inferi non era stato che una sfida: il più bel giovane devoto ad Artemide che lui avrebbe trasformato in un lussurioso, senza neanche aver bisogno di prenderlo con la forza. E la cosa peggiore era che aveva avuto successo nel suo intento.

Uno scalpiccio di passi lo riscosse. Sulla soglia stava un giovane adulto, che doveva avere più o meno la sua età. I suoi capelli erano scuri come quelli di Ade, ma non ricci come quelli del dio. Il colore del suo volto ricordava il legno del ciliegio, caldo e accogliente. Ugualmente accogliente doveva essere il suo corpo.

Koros vide Ade schioccare la dita. Il giovane gli si avvicinò e gli versò da bere dalla sua brocca. Koros osservò il liquido scivolare nel calice, avrebbe voluto alzarsi e rovesciare la bevanda su entrambi. Ade non sembrò accorgersi del suo turbamento, afferrò per i fianchi il giovane servo, tanto violentemente da far cadere il vino sulla tavola.

«Chiedo perdono», disse quello, arrossendo e guardando il disastro che aveva causato.

«Non importa», replicò Ade, e gli tolse dalle mani la caraffa. Poi lo fece sedere sulle sue ginocchia e gli offrì il proprio calice.

Koros sentì lo stesso sentimento che lo aveva invaso quando aveva visto Ade e Menta insieme, questa volta persino più potente. Non era solo rabbia, il sentimento di oltraggio che come figlio di Zeus e Demetra provava davanti a una tale mancanza di rispetto. Questa volta la gelosia si mescolava al dolore di essere stato ingannato. Aveva creduto alla bontà di Ade, al fatto che fosse giudicato male dagli altri dei e che cercasse davvero un compagno legittimo da amare, adesso, invece, lo vedeva come un egoista che faceva entrare chiunque nel suo talamo, purché fosse disposto ad aprire le gambe. Perché proprio adesso doveva mostrargli la sua vera natura? Adesso che lui cominciava a provare un sentimento?

Vide le mani di Ade correre lungo il petto del servo, fermarsi sul suo collo. Poi i loro occhi si incrociarono. Negli occhi di onice del dio Koros non vide più la dolcezza e la disperazione che li avevano ammantati quando erano stati insieme. Un'aria di sfida li rendeva tronfi come quelli di Apollo.

«Vedi di non pietrificare anche questo», lo ammonì Ade.

Koros fu incapace di trattenersi. Balzò in piedi con tanta energia da far rovesciare la sedia, strinse i pugni per impedire alle sue mani di compiere gesti di cui si sarebbe pentito. Non andava fiero di aver trasformato Menta in polvere e poi in un'erba che gli umani avrebbero mangiato, ma Menta lo aveva oltraggiato, quest'altro invece aveva almeno il buon senso di starsene zitto.

«Non mi interessa ciò che fai», sibilò, e sperò di essere stato convincente.

Si allontanò con un gesto brusco dalla tavola, il cuore agitato dirabbia e senso di abbandono. Non avrebbe mai immaginato che l'amore, su cui tanto si era interrogato, potesse lacerare tanto l'anima. Avrebbe voluto rimpiangere il momento in cui si era donato ad Ade, ma non riusciva a farlo. Non riusciva a rinnegare il dio che già troppi avevano rinnegato né a rinnegare il sentimento che era sbocciato nel suo cuore in quel luogo di tenebre.

Prese a camminare, desideroso di lasciare la mensa che avrebbe dovuto farlo sentire uno sposo legittimo e che invece gli aveva regalato solo una nuova ondata di gelosia e di umiliazione.

Ade (gay version)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora