Capitolo 2°-Disturbo da fantasia compulsiva

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"Giulie, ho avuto tante altre pazienti come te... si chiama disturbo da fantasia compulsiva. Ti rifugi nell'immaginazione, ti nascondi nel tuo mondo per evitare di affrontare la realtà."

Me ne sto zitta. Le braccia incrociate e lo sguardo rivolto ovunque, tranne che nella sua direzione.

Da quanto mi conosce eh? Venti minuti? Mezz'ora al massimo.

E già mi ha diagnosticato una malattia mentale. 

Come tutti. Pensano tutti che sia pazza. "Quella è la figlia della tizia che si è suicidata! Oddio, che scandalo. Non lasciamo che i nostri figli parlino con lei, altrimenti inizieranno a pensare come lei e, prima o poi, si uccideranno pure loro!"

Quanta ignoranza, quanta cazzo di ignoranza.

Se ora sono depressa come lo era mia madre è solo colpa vostra. Voi, genitori dei miei amici. Che, dal momento in cui mia madre fece ciò che ha fatto, avete quasi ordinato ai vostri figli, di dieci anni, di non avvicinarsi a me. 

Mi avete lasciata sola. Prima avevo una vita, una famiglia, degli amici... Poi, così, di colpo, mi sono ritrovata non solo senza madre, ma anche senza amici e senza la mia adorata amica del cuore: Stecy.

"A cosa stai pensando?" mi chiede la psicologa.

"A nulla."

"Sì, certo. Stavi guardando nel vuoto Giulie. Si vedeva benissimo che eri nel tuo mondo."

"Nel mio mondo?? Non è normale pensare adesso? Tutti gli esseri umani guardano nel vuoto quando pensano." le rispondo, già abbastanza alterata.

"Certo, è normale, ma tu sei sempre nel tuo mondo, Giulie."

"E con questo? Cosa gliene importa a lei?"

"A me nulla, ma importa a tuo padre."

Una psicologa che dice alla sua paziente una cosa del genere? Non gliene importa nulla di me. Bene. Allora a me non importa nulla di lei.

Mi alzo dal divano, metto lo zainetto in spalle, esco dalla stanza e sbatto la porta il più forte possibile dietro di me.

Tutte le persone sedute nella sala d'attesa mi guardano come se fossi un'aliena, ma non mi importa, ormai ci sono abituata. Esco correndo dall'ufficio e mi ritrovo in mezzo ad una mare di gente. Sono un minuscolo puntino, in un mondo fatto di miliardi di puntini insignificanti.

La città.

Così grigia e buia e triste. Sembra quasi uno sciame di mosche o un formicaio. Sono tutti di fretta. Tutti troppo occupati per fermarsi anche solo un secondo a guardare in che cazzo di mondo vivono. Tutti odiano la vita, ma non lo fanno vedere, lo nascondono con sorrisi che più falsi non si può. Tutti tranne me. Io amo la vita e, in quei momenti in cui la odio, lo urlo, mica lo nascondo. Amo le piccole cose. Amo la pioggia, per esempio. Tutti si riparano con degli ombrelli, io no. A me piace. Mi piace la sensazione che mi da una goccia fredda quando cade sulla mia pelle calda. E così lascio che quella sensazione, quella dell'acqua sul mio corpo, prenda il sopravvento. 

All'improvviso non c'è più nessuno. Sono sola nel bosco.

Sono una principessa che corre sotto la dolce pioggia primaverile. Indosso un abito bianco, lungo fino a terra, pieno di pizzi e ricami e voulant. Alzo la gonna con le mani, per evitare di inciampare, ed inizio a correre, con più grinta questa volta. Il vento mi scompiglia i capelli. I miei magnifici capelli rossi come il sole al crepuscolo, lunghi fino al sedere, raccolti in una treccia a dir poco regale. Sto correndo verso il mio amore. Il principe.

L'uomo più bello ed elegante del reame è stato maledetto. Ha mangiato una marmellata stregata, creata con la più potente delle magie oscure: la mela maligna. 

Si dice sia stata una strega gelosa, ma io credo si tratti, molto più probabilmente, di un demone.

Questo demone, assetato di vendetta e crudeltà, ha deciso di maledire il principe ad un sonno eterno. Quasi eterno. Esiste, infatti, una soluzione. Il bacio del vero amore. 

"Sei fradicia!" mi urla mio padre.

"Lo so." gli rispondo mentre corro in camera mia.

"Te l'avevo dato l'ombrello, Giulie. Perchè non l'hai usato. Potresti ammalarti, dovresti saperlo alla tua età. Hai 16 anni, non puoi più comportarti come una bambina!" 

"Non sono una bambina." gli urlo indignata.

Quando vuole farmi arrabbiare mi dice sempre e solo tre paroline magiche: matta, malata, bambina. Io non sono nè una matta, nè una malata di mente, nè una bambina, ma non lo capirà mai.

"Perchè sei già a casa, comunque? L'incontro con la psicologa sarebbe dovuto finire tra mezz'ora." 

"Beh, non mi piace la nuova psicologa." gli urlo mentre rovisto nel mio armadio, alla ricerca della piccola chiave.

"A te non piace mai nessuno. Da quando avevi 10 anni abbiamo cambiato psicologo tante, troppe volte e non intendo rifarlo. Dovrai farti andare bene questa, che ti piaccia o no."

Certo. E' ovvio, tanto io non posso mai decidere nulla della mia vita, penso.

"Mi hai sentito, Giulie?"mi urla "Cosa stai facendo?"

"Non ti riguarda." gli rispondo a squarcia gola.

Non mi ha mai capita, perchè dovrebbe farlo ora? Se già mi crede fuori di testa, chissà cosa penserebbe se gli dicessi che sto cercando una chiave... perchè penso che finalmente potrebbe darmi delle risposte? 

Assolutamente non posso dirgli che il mio istinto mi urla di prendere la chiave e andare nel bosco. Che penso che quel pezzo di legno mi potrebbe portare, guidare verso una porta forse, o anche sono una serratura. Che cerco quella serratura da quando ho dieci anni, perchè perso che, oltre quella porta, tutti i miei problemi si risolveranno, spariranno come polvere. Non posso dirgli tutto ciò, mi manderebbe al manicomio, altro che psicologa.

"Eccola!" sussurro, quando finalmente la trovo, nascosta tra i miei vestiti. 

Metto il piccolo pezzo di legno magico nel mio zainetto, poi vado verso la porta di casa, pronta a scoprire la verità, finalmente, pronta ad andare ovunque questa chiave decida di portarmi, pronta ad aprire quella maledetta serratura, serratura che sono convinta mi potrà dare delle risposte, una volta aperta. Deve farlo.

"Dove credi di andare?"mi domanda subito mio padre.

"Ma come, non lo vedi? Fuori."

"Si certo, molto spiritosa. Tu non vai da nessuna parte, già sei scappata dalla psicologa."

"Papà non rompere le palle."

"Non ti permettere di rispondermi in questo modo! Ora tu vai in camera tua e ci rimani fino a sta sera, ti servirà per pensare a come ti sei comportata!"

Perfetto.

Me ne vado in camera mia, sbatto la porta con tutta la forza che ho nelle braccia e mi butto sul letto.

Perchè doveva morire proprio mia madre? Lei era l'unica a capirmi.

Mi sale un groppo alla gola, sembra un macigno.

No, non adesso, ti prego. 

So cosa sta per succedere. Sto per mettermi a piangere a dirotto, sto per fare dei versi con la gola che mi sentirebbero anche dall'altra parte del mondo. Non voglio che mio padre sappia che sto piangendo, non adesso.

Così prendo il cuscino e me lo schiaccio sulla faccia.

Tutti i miei singhiozzi, così, rimangono intrappolati nel lattice del cuscino ed io mi ritrovo con un alone gigantesco di mascara sotto gli occhi.

Fanculo.



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