Sudava.
Di questo si sentiva abbastanza certo, per quanto non gli sembrasse di possedere una vera e propria cognizione del proprio corpo, in quello specifico frangente. A renderglielo noto, in aggiunta all'alquanto sgradevole contatto della camicia umida con la pelle, si sommavano i roventi raggi del sole morente di fine maggio, che fendevano la penombra sonnacchiosa della camera da letto, attraverso quell'unico, indomito spiraglio di luce sfuggito alle pesanti tende, nel quale mulinelli di pulviscolo vorticavano con disarmante lentezza, quasi stessero galleggiando nell'etere.Per quanto, due rampe di scale più in basso, la musica seguitasse a suonare senza posa, alle sue orecchie non giungevano altro che sporadici suoni ovattati e assolutamente indistinguibili, di cui possedeva solo una vaghissima percezione. Il silenzio, al contrario, gli pareva assordante e totalizzante, quasi ne fosse avvolto, come da un'invisibile coltre di lino, rimboccata ben stretta.
Aveva caldo, tanto caldo da boccheggiare. Con un gesto quasi irriflesso, fece per allentare il nodo della cravatta, solo per realizzare, l'istante successivo, di non indossarla più. Non ricordava di averla sfilata. Gettò una rapida occhiata circospetta nei paraggi più immediati, senza tuttavia riuscire a scorgerne alcuna traccia. Si domandò, senza particolare convinzione, dove potesse essere finita, sebbene gli fosse ben chiaro che, in effetti, l'assenza della cravatta al momento costituisse l'ultimo dei suoi problemi.
Le palme delle sue mani aderivano perfettamente al gelido pavimento sul quale era seduto, teso sugli avambracci, ben esposti per via delle maniche della camicia più volte ripiegate. Sulla pelle chiara spiccava prepotentemente un intricato motivo astratto di sottili cicatrici lattiginose, pressoché impercettibili, intervallate da alcune più evidenti, tinte di vermiglio, tanto recenti e vive da dare l'impressione di essere sul punto di prendere a sanguinare.
Si decise, infine, a esaminare la parte inferiore del proprio corpo.
Trovò quasi subito che le gambe avessero assunto, probabilmente in maniera del tutto autonoma e ai limiti dell'anarchia, una posizione innaturalmente rigida, lunghe distese sul pavimento, le punte dei piedi (scalzi, sebbene avesse rimosso il ricordo di essersi, a un qualche momento, sfilato i logori mocassini che indossava) rivolte verso l'interno, quasi a sfiorarsi. Evitò accuratamente di posare lo sguardo sui propri pantaloni lisi e, più specificamente, sulla propria cintura, da tempo indefinibile non più serrata nei passanti, bensì bellamente slacciata, nonché di indagare più approfonditamente la questione.Con la stessa, rigorosa meticolosità Remus Lupin si studiava di eludere in ogni modo il pressante sguardo indagatore che, dal lato opposto della piccola camera d'albergo, stava esaminandolo con fare scrupoloso. Percepiva di essere trapassato da parte a parte, si sentì miseramente nudo nella propria, mai realmente celata, vulnerabilità. La familiare sensazione di disagio, di viscere aggrovigliate, che inesorabilmente si generava in lui ogni qual volta qualcuno (chiunque fosse) osasse seguitare a osservarlo per un tempo più lungo di due o tre secondi, prese ad affiorare, accompagnata da un leggero senso di nausea. E il caldo umido e viscoso di certo non l'aiutava. Represse in gola a fatica un conato di vomito, invocando qualsiasi divinità fosse all'ascolto di non essere parso eccessivamente ridicolo.
Per quanto di fatto non potesse averne certezza matematica, dal momento che i suoi occhi ambrati ora sembravano di gran lunga prediligere una fissità apparentemente vacua, orientata verso un punto indefinito, avrebbe spergiurato che gli occhi chiari di Sirius Black, che gli sedeva di fronte, fossero ridotti a due fessure, che le sue labbra fossero ben contratte e la mascella rigida. Segni antichi e inconfutabili che potevano significare solo una cosa, per quanto ossimorica suonasse se accostata al nome di Sirius: ansia.
La camera risultava essere tanto pregna di senso d'attesa, che la stessa aria sembrava essersi fatta in qualche modo solida, palpabile e mortalmente greve. Remus era più che certo che Sirius stesse ingaggiando una furiosa disputa interiore, nel tentativo di non spezzare forzatamente quell'opprimente silenzio, facendolo riecheggiare di un qualche commento insulso, quasi certamente equivoco e assolutamente fuori luogo. Sembrava essere sedimentato nella sua natura, non tollerava in alcun modo che il silenzio si prolungasse per più di due o tre secondi, lo innervosiva in un modo singolarmente simile a quello sperimentato da Remus ogni qualvolta quest'ultimo si sentisse osservato, e pressochè immediatamente avvertiva un bisogno quasi primario di dar fiato alla bocca o, alternativamente, di adoperare una qualunque altra fonte di rumore quanto più acuto, molesto e disdicevole possibile. Tuttavia, Remus lo avvertiva con chiarezza pur senza guardarlo, Sirius sapeva bene di doversi costringere a tacere, quantomeno per il tempo che fosse stato necessario a entrambi per metabolizzare la cosa. O per sempre, se questo non fosse mai accaduto.
