Tossisco. Una volta, due, quattro. Rincorro il respiro quasi fosse vento senza appartenenza. Ma io so che è mio, so che mi appartiene. Qualche secondo di incertezza e ritorno in me stesso finalmente. Jaqueline, impassibile, mi raddrizza il colletto sgualcito, presta dolcemente le labbra alla mia guancia destra e poco prima di riappropriarsene mi sussurra all'orecchio:
- Andrà tutto bene, mio caro.
Forse, in fin dei conti, può davvero andar bene. Inizio a spingere la grande porta scura che mi sbarra la strada, ne tocco la maniglia di metallo freddo e un misto di luce e polvere si fa spazio attraverso la fessura che si viene a creare. La sala d'attesa in cui mi trovo viene contaminata dall'atmosfera al di là di quella porta e l'eco delle voci facoltose verso cui mi dirigo inizia a scavare nella mia già vacillante serenità. Smetto di essere qui, presente a me stesso.
Ho nove anni, l'età in cui se hai un pallone di carta e riesci a scappare dal padrone del terreno da cui vai a rubare le albicocche sei un eroe per tutti. E io lo sono, il petto in fuori, fiero di aver battuto i limiti del mio inseguitore, colmo di orgoglio per i frutti che porto in grembo alla vecchia canottiera che indosso. Li distribuisco come fossi un ricco benefattore, ma in fondo ogni albicocca che si separa da me ricalca il ricordo delle sere passate senza nulla da mangiare, lo stomaco che brucia come se fosse lì per autodigerirsi.
La cravatta mi stringe la gola quasi a ricordarmi che il senso d'oppressione che provo non è dato dalla fame, oramai ho un tetto integro sotto cui dormire assieme alla mia amata, e il cibo, anche se sono stato licenziato più di cinque mesi fa, abbonda comunque nella dispensa in cucina. La verità è che gli anni ottanta non sono i duri anni cinquanta: adesso non ho più nove anni e se trovo un albicocca con un verme non devo far finta di niente, posso gettarla via, anche se poi devo trascinare per tutta la giornata un sottile senso di colpa. Le proprie origini non si possono negare senza effetti collaterali ben visibili. La cravatta questo lo sa, stringe il collo per evitare che la mente fluttui verso ricordi in questo momento improduttivi, quasi fosse un'àncora ai miei doveri. Un'àncora davvero pesante oserei dire.
Spingo la maniglia della porta e lasciando alle mie spalle Jaqueline avvolta dalla sala d'attesa, vado avanti, un passo alla volta. La stanza in cui entro sembra avere un proprio carattere: tutto suggerisce che chiunque non sia seduto dietro l'enorme tavolo che mi ritrovo di fronte sia un mendicante da passare al vaglio, quasi come una vivisezione in un teatro di anatomia. Nessuno si è ancora accorto di me o comunque intende smettere di borbottare per donarmi uno spiraglio di attenzione. Al centro di quell'ampia sala strategicamente illuminata il visitatore è nulla, corpo senza identità ricoperto da un completo che non sarà mai minimamente paragonabile all'eleganza ingombrante di quei vestiti seduti dietro la scrivania. Un corpo nudo allo sguardo di una schiera di completi senza corpi che li indossano, ecco come mi sento. Probabilmente la figura a destra porta il nome della marca delle sue scarpe e... La cravatta mi riporta sul posto stringendomi la gola, salvezza al momento giusto. Il brusio viene finalmente spezzato da qualche istante di silenzio. Gli occhi degli uomini-abito ora sono puntati verso di me, rovistano fra le mie tasche, frugano in ogni anfratto. Prego che qualcuno dica qualcosa.
Le mie preghiere vengono esaudite quando l'uomo-abito al centro legge distrattamente su un foglio fra i tanti:
- Charles Bontier. È esatto?
Scandisce il nome lentamente, il suono come caramello tra i denti.
- Si, Monsieur. Sono Charles Bontier, vengo dalla regione del...- Vengo subito interrotto. Sono un bambino che parla a sproposito alla sua prima lezione di scuola primaria.
- Non nascondiamocelo,- parla ai suoi colleghi brandendo una carpetta grigia colma di fogli come fosse una bandiera che mostra palesemente la verità - Monsieur Bontier è un uomo inutile.
Non realizzo subito il significato delle parole dell'uomo-abito. Uomo. Inutile. Uomo va bene, lo sono. Inutile...
- Inutile in che senso?- È l'unica frase dotata di senso che riesco a pronunciare.
- Non faccia finta di non sapere Monsieur, il suo andamento vitale ci lascia perplessi. Perchè è ancora vivo?
A seguire un insieme di sensazioni e reazioni incoerenti, quasi come se il mio corpo si fosse adattato all'assurdità della conversazione. Distogliendo l'attenzione dal calore che investe il mio volto cerco di replicare:
- Ho sicuramente sbagliato posto, questo è il colloquio per...
- Lei è proprio dove deve essere, ne è prova la presenza delle nostre guardie fuori dell'edificio, Monsieur Lantier!
- Bontier!- preciso, alquanto stizzato.
- Quisquiglie Monsieur Bontier! Ripetere il suo cognome non distoglierà certo lo sguardo della commissione dall'inefficienza del suo comportamento tra i quattro e i quattordici anni della sua vita. Dieci anni di infanzia senza nessun profitto. Lei non ha reso, lo capisce Monsieur Benvier?
- Bontier,- ripeto l'unica parola che esce dalla mia bocca, - Bontier.
Basta. Do le spalle all'imponente tavolo da conferenza di legno scuro e mi avvio verso la porta, impaziente, le mani sudate e il volto contratto in una smorfia che sicuramente non so spiegarmi. Riabbracciare Jaqueline dopo questa breve, folle esperienza sarà un sollievo. Subito l'uomo abito mi blocca:
- Charles... Dove vai?- Mi da del tu, la confidenza rubata da chi sa che ha il coltello dalla parte del manico.
Arrivo a sfiorare la porta quando lo sento continuare:
- Tua moglie: Jaqueline De Neveau, nata nel 1957 da famiglia umile, il padre minatore sottopagato, la madre morta quando la figlia era poco più di una bambina. Una vita non proprio agiata.
Mi fermo, il freddo di quella stanza diventa una giacca che mi calza a pennello. Lo indosso forzatamente. Con la mano ancora sulla maniglia dorata mi vedo costretto a chiedere:
- Perchè... Cosa volete da me?
- La domanda non è cosa vogliamo noi,- torna a mantere la distanza restituendo la confidenza rubata - ma cosa Jaqueline vuole, cosa si aspetta da lei. Cinque mesi senza uno stipendio e torna dalla sua amata con in tasca solo l'ennesimo demotivante rifiuto. Ma lei è, ovviamente, un uomo libero, vada pure se preferisce.
Improvvisamente, il peso delle aspettative di un piccolo nucleo familiare si palesa, immenso e pericolante come un macigno pendente sulla mia testa. L'uomo-abito imperterrito:
- So che li sente, le preghiere e le speranze di sua moglie nella sala d'aspetto, la paura di far rivivere la povertà della sua infanzia al suo futuro figlio, il vuoto di fronte alla delusione negli occhi di chi ama e il terrore dell'abbandono, della solitudine.
- Mia moglie mi ama, non mi abbandonerà di certo.
Chiudo gli occhi poco prima della risposta del mio interlocutore, quasi a non voler vedere la verità di quella stanza, l'informe sfera di significati e sentimenti che si stava lentamente delineando nutrendosi di... me.
- Ne è proprio sicuro?
Lo sono, ma oramai il seme è stato adagiato nel terreno fertile delle mie insicurezze. Una bella donna, stanca di una vita di stenti, lascia il marito perchè non riesce a darle uno stile di vita dignitoso. Più che plausibile. Intrappolato fra due mondi, come sotto la cornice di un quadro surrealista, lascio la porta per riposizionarmi di fronte al tavolo. L'assenza di umanità avvolta da quei completi adesso mi mostra un ghigno di vittoria, una piega tra i tessuti di quegli abiti firmati.
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Il Colloquio
Short StoryNegli anni della ricrescita europea, gli anni '80 francesi, un uomo vive un'esperienza alquanto singolare: diviene il protagonista di un episodio destinato a cambiare la sua vita. Costretto a nuotare affannosamente nel mare delle sue incertezze scop...