Capitolo 2

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Quella sera si divisero l'ultima fetta di pane, assieme a un pezzo di formaggio ammuffito che avevano trovato sul fondo di una cassa nella stiva.

«Chissà cos'altro metteremo sotto ai denti domani» ricordò Faccia-di-gufo con il suo solito pessimismo, prima di portarsi alla bocca la sua parte di cena.

Nessuno di loro osò fiatare. Seduti in cerchio, masticavano la propria razione, terminando quelle ultime provviste.

«Se ci penso mi vien voglia di tagliargli la testa e imbalsamarla.» Varùl pose fine al pesante silenzio che li aveva avvolti come una coltre di nebbia. Era sempre il primo a terminare di mangiare, e i suoi occhi cercavano già residui di briciole che potevano essersi incastrate nella sua folta e ispida barba ramata.

«Quelli come Conard sono tutti dei codardi. Cambiano nome molto in fretta, dubito che riusciremo a trovarlo» gli rispose Meira.

«Sempre se prima riusciamo a trovare la terra» puntualizzò il vecchio pirata.

Varùl li fissò con uno sguardo carico d'odio. «Cambierà pure nome, ma non potrà cambiare faccia. Le isole sono piccole e se la rivedrò....»

«Secondo voi» Rebash smise di leccarsi le dita solo per interromperlo. «Perché non ci hanno uccisi subito? Perché scaricarci in mare con delle provviste?» Se lo era chiesto spesso ma era la prima volta che lo diceva ad alta voce. Sapeva che il resto di quell'insolito equipaggio non aveva una risposta, proprio come lui, ma dopo quei giorni trascorsi insieme pensava che forse sarebbe stato saggio conoscerne le opinioni.

Forse Conard non sapeva delle provviste nella stiva, forse era solito scegliere navi a caso dove lasciare le sue vittime, eppure li aveva derubati e poi risparmiati, conoscendo le conseguenze del suo gesto. Rebash si massaggiò le nocche. Ricordava la promessa di quel forestiero: un passaggio per andarsene dall'isola, non poteva dire che non fosse stata mantenuta, ma ricordava anche il pugno che aveva sferrato a uno dei suoi uomini, quando lo avevano immobilizzato. Aveva visto Faccia-di-gufo e Varùl sul ponte. Aveva pensato che fossero morti, aveva pensato di morire anche lui quella notte.

«A questo punto comincio a credere che ci uccideremo da soli, se non arriverà il vento» disse Faccia-di-gufo. «Forse per questo motivo nella stiva c'erano più armi che cibo, il nostro truffatore deve aver pensato a tutto.»

«Uccidere è peccato.» Meira si accarezzò la braccia e ricevette tre occhiate confuse.

Alle Isole Vermiglie poche persone erano così generose: quasi tutti non si facevano problemi a tagliarti la gola se era conveniente.

«Peccato?» l'apostrofò Varùl e cominciò a sghignazzare. «Adesso capisco perché non vuoi dirci da dove vieni. Sarai mica la figlia illegittima del predicatore? Quella che si vocifera tiene nascosta in cantina. Scommetto che quel tuo libro è pieno di preghiere.»

«E anche se fosse?» lo sfidò.

«Che c'è? Il vecchio predicatore si è stufato di te, e ti ha venduto a un pazzo? Non mi stupirei se fosse andata proprio così. Penso che tu sia insopportabile. A lungo andare si è vergognato di te, eh? Tua madre doveva essere proprio una brutta...»

Un sibilo gli sfrecciò accanto alla faccia.

Quelle ultime parole gli si incastrarono in gola, e Varùl le mandò giù una per una, zittendosi.

Meira aveva afferrato il coltello con cui aveva razionato il pane e lo aveva lanciato contro l'uomo. La lama gli aveva sfiorato l'orecchio, incastrandosi alle sue spalle in una precisa fessura del corrimano sul parapetto. Era durato un attimo: l'elsa era poggiata a terra davanti alle ginocchia della donna, e l'istante dopo fendeva la distanza che la separava dal suo obiettivo.

Vento in bottiglia e segreti di sirenaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora