Day Five.

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Mancavano cinque giorni alla morte di Reed, ma ancora non potevo saperlo.

 

Quando mi svegliai, avevo gli occhi di Reed puntati addosso. Mi stava fissando, con sguardo assente, perso, privo di emozioni. I suoi occhi, solitamente azzurri, avevano delle sfumature grigie.

Cercai di restare immobile, per non spaventarla. Sembrava uno di quei momenti in cui aveva poca lucidità e, spesso, dimenticava le cose, così come le persone. Che si dimenticasse di me, era successo solo una volta.

“Louis…” disse in un sospiro. Nel sentire il mio nome, le sorrisi, avvicinando una mano alla sua testa, per accarezzarle i capelli. “Ei, hai fame?” le chiesi, sebbene immaginassi la risposta.

A quelle mie parole, Reed si alzò all’istante, mettendosi a sedere. La sentii singhiozzare e capii all’istante che stava piangendo. Vedevo le sue spalle ossute alzarsi e abbassarsi ogni volta che aveva un singhiozzo.

Non sapevo per quale motivo stesse piangendo, ma sapevo che, ultimamente, molte delle sue azioni non avevano senso; ormai la ragione aveva lasciato Reed.

“Io non ho fame. Non posso mangiare. Non voglio mangiare. Io…” stava farfugliando parole a caso, mentre lacrime salate le rigavano il volto pallido e scavato.

Mi affrettai a posizionarmi davanti a lei, prendendole le mani tra le mie e stringendogliele forte. Appoggiai la fronte sulla sua, cercando di farla calmare. “Se non hai fame, è tutto ok.”

 

Non era vero. Nelle condizioni in cui era, avrebbe dovuto mangiare, ma da un paio di settimane si rifiutava di mangiare qualsiasi cosa. “Al massimo, posso prepararti un frullato. Va bene?”

Prese un paio di respiri, cercando di calmarsi. La vidi annuire e, con un sospiro, la presi in braccio, stampandole un bacio sulla tempia. “Grazie” sussurrò, stringendosi più forte a me.

Da quando le avevano diagnosticato il cancro, Reed era cambiata, non era più la stessa. Il fatto che rifiutasse le cure e i tentativi di salvezza, mi uccideva sempre di  più, ma non potevo farci nulla.

Le sarei rimasto accanto, fino alla fine, quello era sicuro. La portai in cucina, facendola sedere su uno degli sgabelli e mi misi subito all’opera.

Frullarle il cibo sembrava l’unico modo per farle mangiare qualcosa, o almeno farglielo ingerire. Era abbastanza difficile trattare con lei, ma finché le andava bene bere quella brodaglia di ingredienti, lo avrei fatto.

Frullai i cereali insieme al latte, osservandola mentre fissava la porta d’ingresso, come se stesse aspettando l’arrivo di qualcuno. Misi il preparato in un bicchiere e attirai la sua attenzione con un colpo di tosse.

Reed si voltò, con calma, facendo nascere un sorriso non appena vide il bicchiere di fronte a lei. Iniziò a berlo con gusto, non badando ai baffetti di latte che si vennero a formare sopra le sue labbra.

Era così spensierata in quel momento. Presi un mandarino dal cesto di frutta e mi avvicinai a lei, cingendole le spalle con un braccio. Era incredibilmente piccola in confronto a me.

Posai le mie labbra sulla sua testa e le diedi un veloce bacio. “Oggi ti va di andare a fare un giro al centro commerciale?” chiese, alzando lo sguardo su di me.

Nel sentire quelle parole, il mio cuore fece un doppio salto mortale. Da quando aveva iniziato a peggiorare, Reed aveva anche smesso di uscire, utilizzando la giustificazione di essere sempre troppo stanca.

Le sorrisi, annuendo. “Ma certo!” fu la mia risposta. Ero davvero felice, emozionato e nel vederla così spensierata, mi ero sentito rilassato, almeno per quel giorno.

Quella, però, sarebbe stata l’ultima volta che Reed vide il centro commerciale, ma ancora non potevo saperlo.

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