Capitolo 6

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Salgo le scale antincendio del mio appartamento, affiancata dal fantasma, ed entro in casa. Una volta entrata, mi dirigo in camera mia ed apro le finestre per l'odore di chiuso che percepisco nelle narici. Mi basta sentirlo in classe. Il fantasma si siede tranquillamente sul letto, con le gambe incrociate e la schiena appoggiata alla spalliera del letto. Mi sto vergognando di tutto il disordine che c'è in questa camera al momento: i vestiti sporchi appoggiati sulla sedia vicino alla finestra, perché non ho avuto tempo di fare la lavatrice, gli evidenziatori colorati e le penne senza tappo sparsi sulla scrivania, gli appunti stropicciati e alcuni fogli accartocciati vicino. Il pavimento è cosparso dai libri che non ho riordinato ed altri vestiti che vanno messi in lavatrice. Sembra che sia scoppiata una bomba in questa camera. Sono un disastro.
Il ragazzo seduto di fronte a me guarda perplesso il marasma attorno a lui, con una smorfia di disgusto.
-La seconda guerra mondiale ha fatto meno danni - dice, una nota di sarcasmo trasuda dalla sua voce.
- Certo. E tu lo sai perché c'eri quando è successo, vero? - dico, con altrettanto sarcasmo nel tono.
-No, ma non ci vuole un genio per intuirlo. Ti dò due secondi per fare ordine.
- Scusa Christian Grey degli spiriti, ma non mi piace chi mi dà ordini. Il disordine mi piace e se non è di tuo gusto sono fatti tuoi.
- Guarda guarda. Il gattino sta tirando fuori gli artigli. Li tiri fuori con qualcuno che non ti ha fatto nulla, ma deve arrivare un professore per difenderti dalle tue stupide compagne di classe. - me lo dice con tono derisorio e un ghigno perfido stampato sul viso. Poi scompare. Attraversa il muro e sparisce dalla mia vista. Decido di sistemare un po' la casa, a partire dalla mia camera, non perché me lo abbia detto lui, ma perché non voglio che mia madre veda questo disastro quando torna da lavoro. Inizio prendendo tutti i vestiti sporchi che trovo in casa e buttandoli in lavatrice, metto il detersivo e l'ammorbidente, poi l'aziono. Poi sistemo i libri sparsi per la camera negli scaffali sopra la scrivania. Butto nel cestino accanto al letto tutte le cartacce che vedo e sistemo i fogli con gli appunti nei libri di scuola. Dopo sistemo le penne e gli evidenziatori nel portapenne a forma di coniglietto sopra la scrivania. Infine metto un po' di musica dal telefono e muovo i fianchi a tempo mentre passo l'aspirapolvere per tutto l'appartamento. Quando ho finito sono le sette di sera ed Alaskaj non è ancora tornato. Fatti suoi. Per me può pure andare a infestare case più ordinate lontano da qui. Quando mia madre torna a casa, ceniamo e lei si prepara per uscire con alcune sue colleghe con cui ha fatto amicizia a lavoro.
Sono le dieci di sera e io sono da sola in casa, appoggio il mento sul palmo caldo della mano e allungo i piedi sul davanzale della finestra in salotto. La luce della stanza è spenta e gli unici rumori che si sentono provengono da fuori, dalle macchine che passano in strada, i loro fari illuminano le finestre delle case, proiettando la luce all'interno, allungando le ombre che si creano. Una melodia arriva alle mie orecchie attraverso il vetro, un insieme di note gravi si espande nell'aria, i tasti di un pianoforte vengono carezzati con maestria. È un'armonia di note basse, che viene spezzata da una sequenza di note più acute e veloci, tanti lampi che squarciano la calma della notte. Una tempesta interiore, quella del pianista, che mi attraversa l'animo fino a renderla mia.
Un'ombra si staglia vicino al davanzale, di fronte a me. Due occhi verdi mi fissano sovrappensiero, una malinconia velata nello sguardo. Alaskaj è qui, ma solo apparentemente. I suoi pensieri sembrano lontani chilometri da questa stanza. Così glielo chiedo: - A che pensi? - questa domanda esce come un sussurro dalle mie labbra per non interrompere bruscamente la tranquillità di questo momento.
-Una volta suonavo anche io. - Un sussurro anche il suo. Nel pronunciare questa frase, qualcosa nel suo sguardo si spezza, ed è qui che capisco. Gli manca. Gli manca suonare, parlare o addirittura camminare come tutti gli altri. Questo ragazzo è stato costretto a vagare per nove anni senza riuscire a parlare con qualcuno, senza riuscire ad afferrare un qualsiasi oggetto, senza nemmeno riuscire a spostarne uno. Perché è questo che significa essere fantasmi, vagare su questa terra senza che nessuno si renda conto della tua esistenza, non essere vivo, ma nemmeno del tutto morto, perché qualcosa della tua anima si è aggrappato a questo mondo e ti ha costretto a rimanerci.
Scendo dal davanzale e mi avvicino a lui, cerco di abbracciarlo anche se non mi è possibile e un brivido freddo mi scivola addosso quando le sue braccia mi avvolgono e le sue mani attraversano il mio corpo, all'altezza dei fianchi, sparendo dentro la mia pelle.
Il rumore di una serratura che scatta mi distrae dall'abbraccio, che sciolgo subito, quando capisco che mia madre è appena tornata a casa. In un salto raggiungo la cucina e, aprendo un cassetto, mi fingo occupata a scegliere una tisana. Mia madre spalanca la porta di casa, e si qualche attimo dopo si accorge della mia presenza.
-Non pensavo fossi ancora sveglia-
-Non riuscivo a dormire. Sto facendo della camomilla. Ne vuoi un po'? -
Lei fa cenno di sì con la testa e, appoggiando il cappotto sul bracciolo del divano, si siede a tavola. Preparo le due tazze e le appoggio sul tavolo. Una con tanto zucchero per me, una senza niente per mia madre.
-Come è andata? - la guardo e noto il trucco un po' colato sotto gli occhi, il rossetto leggero un po' sbavato sulle labbra. Sembra molto tranquilla e rilassata, questa uscita deve averle fatto molto bene.
-È stato molto divertente. Prima di questa sera pensavo che le mie colleghe fossero normali, ma devo ricredermi. - e mi sorride in una maniera tanto spensierata che mi viene spontaneo accennare anch'io un piccolo sorriso.
Poco dopo metto la tazza vuota nel lavello della cucina, do un bacio sulla fronte a mia madre e le dò la buona notte. Entro in camera mia e trovo Alaskaj ad aspettarmi, seduto sul letto. Mi metto sotto le coperte e mi addormento con Alaskaj di fronte a me, e i suoi occhi che mi guardano nella penombra della stanza, con la luna che illumina la mia stanza, fedele accompagnatrice della notte.

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