Il mattino seguente, quando mi sveglio, Alaskaj non è in casa. Non c’è nemmeno mia madre, a quest’ora si starà già dirigendo a lavoro. Inizio a prepararmi, con la solita lentezza che mi caratterizza e decido su due piedi di lasciare i capelli sciolti, legando solo un paio di ciocche, affinché non mi diano fastidio. Metto un paio di skinny jeans neri a vita alta, un maglioncino un po’ attillato e un paio di sneakers bianche. Ovviamente sono in ritardo, e anche oggi farò colazione domani, così mi lavo i denti e mi sciacquo la faccia. Applico un po’ di crema idratante sul viso e massaggio bene per togliere gli eccessi, poi metto un po’ di burrocacao ai frutti di bosco, e lo ripongo nell’astuccio dello zaino. Infine faccio una corsa per arrivare alla fermata. L’ho già detto che sono in ritardo? Non che sia una novità.
Vedo che l’autobus è già accostato alla fermata e che le ultime persone rimaste stanno salendo, quindi faccio uno scatto di un paio di metri e con un salto salgo sul pullman, le porte si chiudono immediatamente dietro di me, e l’autista parte. Faccio vedere l’abbonamento al controllore e mi siedo a uno dei pochi posti rimasti liberi. Il mondo fuori dal finestrino sembra che si sia appena svegliato, da dove sono seduta riesco a vedere l’alba. Un insieme di nuvole colorate di giallo dal sorgere del sole, che sfumano in arancione e successivamente rosa, mentre dalla parte opposta è ancora buio. Più in lontananza si vede il bosco, con il suo verde scuro magnetico ed ipnotico, che mi ricorda gli occhi di qualcuno che non ho ancora visto stamattina. Mi chiedo dove sia adesso.
La giornata è stata abbastanza tranquilla, ho offerto a Chels il caffè che le dovevo, anche se ha provato a rifiutare e a pagarselo da sola, ma sono stata più insistente di lei e l’ho avuta vinta io. Si, a volte anche io so essere testarda. A pranzo mi sono seduta al suo tavolo e poco prima della fine della pausa, ho visto sia Blake che Alaskaj e siamo rimasti d’accordo sul vederci a casa mia appena dopo scuola. Io e Chels ci siamo scambiate i numeri, poi lei mi ha inviato anche i numeri dei suoi fratelli. Ora ho quattro numeri salvati sul cellulare, cinque con quello del telefono di casa, che è quasi sempre staccato, perché nessuno telefona lì.
Ora sono a casa con Kay e stiamo aspettando insieme che arrivi Blake. Un suono acuto interrompe il silenzio in cui siamo sprofondati da quando siamo entrati in casa, e fa scoppiare la bolla in cui siamo rinchiusi da mezz’ora a questa parte. Apro la porta di casa e faccio cenno al biondo di entrare.
Appena entra mi richiudo la porta alle spalle gli chiedo se vuole qualcosa da bere.
- Un bicchiere d’acqua sarebbe perfetto. Ho una sete.
Prendo una bottiglia dal frigo e un bicchiere dalla credenza in alto, lo riempio d’acqua e glielo passo, lascio la bottiglia sul tavolo nel caso abbia ancora sete. Blake beve reclinando la testa all’indietro, mostrando il pomo d’adamo che si muove velocemente. Una volta finito, mi passa il bicchiere vuoto, che lascio nel lavandino, e ripongo l’acqua nel frigo. In tutto questo Alaskaj ci guarda con un cipiglio sul volto, che non riesco ad interpretare.
- Cosa ti ricordi di quello che è successo? – chiede in modo gentile, quasi cauto, Blake. Penso abbia paura della reazione del fantasma a questa domanda, ma dobbiamo iniziare pure da qualcosa. Io prendo un taccuino e una penna, che avevo precedentemente preso dalla mia stanza per appuntarmi le cose più importanti e mi preparo a scrivere qualcosa.
Il fantasma sembra riflettere un attimo sulla domanda, poi dice: - Sono stato ucciso un giorno d’Aprile, difficile dimenticarsi il giorno della propria morte. Ero nello studio di mio padre, cercando un libro che mi serviva nella grande libreria sulla parete a destra, e ho sentito qualcosa trafiggermi. Ho sentito un forte dolore al petto e sono cascato sulle ginocchia. Non ho fatto in tempo a girarmi che sono morto. Non mi sono risvegliato subito, credo fossero passate un paio d’ore, cercavo di parlare a mio fratello, e non capivo perché non mi sentisse, gli chiedevo cos’era successo. Poi ho visto il mio corpo a terra, nel centro della stanza, il sangue rappreso sul tappeto persiano che a mio padre piaceva tanto. Il mio sangue.
-Cosa hai fatto dopo? – a chiederlo sono io, con topo carezzevole, leggero.
-Non mi ricordo bene, credo di essermene andato subito, non riuscivo a sopportare tutto quel dolore sul viso dei miei genitori e non poter far nulla per alleviare le loro pene. Dir loro che li vedevo, che ero ancora lì, anche se non riuscivano a sentirmi. Ho viaggiato per il paese per tanto tempo, l’ho fatto a piedi, per far passare il tempo, tanto non provi stanchezza se sei morto. Non ho mai trovato qualcuno che riuscisse a vedermi, anche se io ci provavo a parlare con le persone, speravo di essere notato, ma non è mai successo. Ho incontrato molti fantasmi, ma la maggior parte non sa di esserlo, crede di star sognando e che si sveglierà presto, non si ricordano nemmeno come sono morti.
Ed era vero, molti fantasmi credevano di essere nei loro sogni e che si sarebbero svegliato presto, anche se erano morti da trecento anni. Quando muori hai una percezione diversa del tempo, ti sembra siano passati pochi minuti, ma in realtà sono passati anni. Anni che non riesci a ricordare.
-Credo che dovremmo cominciare a indagare sul caso. – dice Blake – Dal, prendi il tuo computer, così iniziamo a cercare delle notizie a riguardo.
Con un cenno di assenso, vado a prendere il mio PC, mi siedo sul divano e lo accendo, poggiandomelo sulle gambe. Sono seduta tra Alaskaj e Blake, entrambi sporgono la testa nella mia direzione per vedere lo schermo. Clicco sull’icona di Google e cerco il nome del ragazzo alla mia sinistra.
Alaskaj Byrne
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OUTSIDER
FantasyA Dawnville, un tranquillo paesino di montagna, iniziano a verificarsi strani avvenimenti che sconvolgono la quiete e la normalità che caratterizzano il posto. Dalila abita lì da quando è nata e vive con la madre in un appartamentino di un vecchio p...