Sono all'esterno. Lo so perché sento l'aria frizzante solleticarmi la pelle nuda del ventre e le fronde degli alberi sfiorarmi con dolcezza il volto.
Aprendo gli occhi i raggi solari, che filtrano attraverso la chioma fiorita che mi fa ombra, mi pizzicano le retine costringendomi a richiuderli. Il soffice letto di erbetta su cui sono disteso è fresco a contatto con la mia schiena.
Sento un uccellino cinguettare e mi alzo a sedere appena in tempo per scorgere il fruscio delle sue ali sparire fra le fronde di un salice uguale a quello, i cui rami, che quasi toccano terra, mi tengono al sicuro e fresco.
Inspiro profondamente e sorrido alla magnifica sensazione della natura che si muove attorno a me. Che vive attorno a me.
Anche senza vederli, riesco a percepire tutti i movimenti attorno a me: gli steli d'erba che frusciano nel vento lieve, il ronzio di un'ape, il lontano scorrere di un corso d'acqua, l'energia vitale che scorre nella stessa terra.
E' una delle sensazioni più intense che abbia mai provato.
Poi, all'improvviso c'è qualcosa accanto a me, una traccia nel miscuglio di sensazioni, che non appartiene alla natura, neppure al genere umano.
Voltandomi sono sorpreso di trovare accanto a me un bambino. E' pallido, con due grandi occhi neri che mi osservano.
C'è qualcosa che non va con questo bambino, con la sua energia, che interferisce con l'equilibrio della natura. Metto da parte le mie sensazioni e mi concentro sul bambino seduto accanto a me. Non credo di averlo mai visto né fra i bambini della tribù né fra quelli della cittadina, ma potrei sbagliarmi.
"Hei" dico cercando di sorridere "ti sei perso, piccolo?" Il bambino continua a osservarmi senza dire nulla, gli occhi di onice fissi su di me mi seguono in ogni movimento.
"Che succede?" chiedo non avendo ricevuto alcuna risposta "Non puoi parlare?" il bambino continua a guardarmi, poi, sorprendentemente, allunga un braccio nella mia direzione, forse aspettandosi che io gli prenda la mano.
Confuso avvicino la mia mano alla sua e la tocco.
D'un tratto il bambino trasfigura: gli occhi si ingrandiscono e la bocca si allarga, la pelle si fa cinerea e i denti si appuntiscono e un terrore orrendamente familiare mi assale, la testa mi si riempie di urla agonizzanti. Ma quello che veramente mi terrorizza è che questa paura non mi appartiene.
Le urla disperate che mi risuonano in testa non sono le mie. Sono di qualcun altro. Ed è troppo intenso, tremo così forte che i miei denti battono fra loro.
Non riesco a lasciare la mano del bambino che continua a guardarmi con un orrido ghigno in faccia. Ed è troppo, le urla, la disperazione, gli occhi neri ed enormi del bambino, è troppo, le sensazioni si accavallano dentro di me, si accumulano fino a non essere più riconoscibili, mescolate in un'unica poltiglia di paura, e allora urlo con tutto il fiato che ho in corpo.
E mi sveglio.
Ansimo e sbatto le palpebre per riacquistare conoscenza. Sono sul mio letto, in camera mia e sono sudato. Mi porto le mani alla fronte sudata e mi sposto con foga i capelli biondi che nella notte mi sono finiti sul viso. Mi sento accaldato e mi manca l'aria, quindi scalcio con forza il lenzuolo che mi si è attorcigliato alle gambe. Mi infilo le mani nei capelli e tiro leggermente, sperando che il dolore mi riporti alla realtà. Dalla finestra filtrano i raggi del sole e sbuffando mi ricordo che oggi è il primo giorno di scuola. Dalla bocca mi esce un patetico mugolio e mi strofino i palmi delle mani sul viso.
Nonostante mi sia appena svegliato mi sento appesantito da una stanchezza atavica che mi trascino dietro da troppo tempo. Cerco di rilassarmi sul letto a questo orrido sogno ricorrente che faccio ormai dalla seconda notte che ho passato in questa cittadina. Odio questo posto. Non riesco proprio a capire cosa ci trovi la mia famiglia in questa stupida cittadina piena di strane persone che seguono assurde leggi imposte da un sindaco qualunque! Non avrei mai pensato che avrei mi voluto tornare in città.
Qualcuno bussa alla mia porta e, prima ancora che possa dire "avanti", Marie Claire entra nella mia stanza e si siede ai piedi del mio letto.
"Svegliati Ilyen!" Esclama emozionata "Oggi iniziamola scuola!" Le scaccio la mano quando me la mette su un fianco e mi scuote.
"Sono sveglio" mugugno. "Allora vieni, andiamo a fare colazione." Trilla scendendo dal letto con un balzo e uscendo in fretta dalla mia camera. Sbuffo sonoramente; sono già al secondo sbuffo e sono sveglio da neanche mezz'ora, la giornata si prospetta grandiosa.
Scendo dal letto ed entro nel piccolo bagno: mi lavo il viso e mi asciugo. Quando alzo lo sguardo nello specchio il mio riflesso mi si presenta come una versione sbiadita di me stesso. I capelli mi sono allungati fino alle spalle ma non credo li taglierò: mi piacciono così. Evito di soffermarmi troppo sui miei occhi grigi visibilmente mancanti di sonno e spenti. Quando ho finito di lavarmi e di vestirmi afferro la borsa, in cui ho precedentemente buttato un paio di quaderni, e scendo in sala da pranzo dove la mia famiglia sta facendo colazione.
"Buondì Ilyen! Siediti, prendi qualcosa." Mi saluta mio padre ma cerco di rifiutare. Ho lo stomaco chiuso; anche se non mi piace ammetterlo sono piuttosto nervoso da questo primo giorno di scuola. Quando anche mia sorella ha finito di prepararsi usciamo e ci incamminiamo per le vie della cittadina.
Guardandomi intorno non riesco a fermare il brivido che mi scorre lungo la schiena: è tutto così perfetto... e così finto. Le strade di terra battuta sono larghe e pulite, senza neppure un granello di polvere fuori posto, le case di legno si alternano fra chiaro e scuro con una casa bianca e una marrone in successione, tutte della stessa misura, con la stessa porta, lo stesso numero di finestre. Le persone in giro sono vestite tutte uguali: abito per le donne e giacca per gli uomini, stesse scarpe, stessa acconciatura.
E' tutto così ossessivamente ordinato da fare impressione. La gente ci guardano quando passiamo loro vicino e, per quanto abbia il desiderio di camminare velocemente e arrivare a scuola nel minor tempo possibile, sono costretto ad aspettare Marie Claire che al contrario si gode il tragitto salutando e sorridendo a tutti.
E' assurdo che mia sorella si becchi i sorrisi mentre a me non vengono che riservati gli sguardi di giudizio e la disapprovazione. Eppure mi rifiuto di dare loro la soddisfazione di vedere che tutto questo astio mi tocca; tiro su il mento e incrocio ogni sguardo che mi viene rivolto. Quando (finalmente) arriviamo a scuola io e Marie Claire veniamo separati: lei viene accompagnata da una donna magrolina senza un capello fuori posto mentre a me viene solo detto il numero della classe, non un'indicazione di più.
Ovviamente mi sono perso.
Ovviamente sono arrivato in ritardo.
Quando finalmente riesco a trovare l'aula sono talmente sollevato che mi dimentico che è buona educazione bussare. Capisco il mio errore quando il volto paonazzo del professore si contrae in una smorfia sbilenca che preannuncia la madre di tutte le sgridate. E' quasi divertente il modo in cui parla, tutto affannato, per dire più parole nel minor tempo possibile. Lo ignoro fino a che non mi dice di sedermi. L'unico posto libero è accanto ad un ragazzo massiccio con i capelli biondi a spazzola e il viso pieno di lentiggini. Ancora prima di sedermi capisco dalla sua espressione che non è contento di essere il mio nuovo vicino di banco.
Una volta che mi sono seduto tiro fuori dalla borsa il quaderno e la matita che mi sono portato.
Il professore continua a straparlare sull'importanza della puntualità ma sinceramente non lo sto proprio ascoltando. Tengo lo sguardo puntato in avanti, lontano da quello dei miei compagni che mi osservano come se fossi uno strano animaletto. Poi, improvvisamente tutti si alzano e, con la mano premuta sul petto, dove c'è il cuore, cominciano a recitare delle frasi. Sono stordito e non ho idea di cosa stia succedendo, rimango seduto a guardare con occhi sgranati quello che sta succedendo. Quando tutti si rimettono seduti gli occhi irritati e disgustati del professore tornano su di me.
"Signor Williams!" Mi richiama nuovamente "E' qui da una settimana e ancora non crede sia ora di imparare l'inno cittadino?!"
Accanto a me sento il ragazzo biondo sbuffare e l'imbarazzo è tale che per poco non mi giro per dirgli di stare zitto. Gli sguardi degli altri ragazzi mi pizzicano la pelle ma cerco di ignorarli e abbasso lo sguardo cominciando a scarabocchiare sul quaderno. Qualche minuto dopo il professore sembra essersi stancato di elencare i motivi per cui sa già che sarò un pessimo studente e comincia la vera e propria lezione di cui io non riesco ad ascoltare neppure una parola.
Lentamente, con il passare dei minuti, i miei nuovi compagni smettono di guardarmi come se avessi due teste (se non per il ragazzo biondo di fianco a me che continua a lanciarmi occhiate velate di quando in quando) e le prime ore di scuola passano relativamente tranquille; io ignoro la classe e i miei compagni ignorano me.
Quando fuori dalla porta viene fatto suonare un campanaccio, tutti si alzano per salutare il professore che esce scagliandomi un'ultima occhiata di disappunto e, malgrado tutto, mi ritrovo a tirare un sospiro di sollievo. Mentre i ragazzi escono dall'aula, accanto a me, il mio compagno di banco continua ad ignorarmi e tira fuori dalla sua borsa un involucro di carta che srotola sul banco rivelando una focaccia dall'aspetto soffice. Forse è il caso che gli chieda almeno il nome dal momento che probabilmente dovremo vederci per un po'.
Mi schiarisco la voce, per attirare la sua attenzione, e allungo la mano destra:
"Mi chiamo Ilyen." Mi presento con un leggero sorriso. Il ragazzo biondo guarda la mia mano con disgusto e non si azzarda a stringermela.
"Richard" sputa tornando alla sua focaccia e assestandole un morso. Quando capisco che "Richard" non ha alcuna intenzione di stringermi la mano, sospiro e la ritiro. Apro la bocca per chiedergli in che zona della città vive ma vengo interrotto ancora prima di iniziare dall'arrivo di un gruppetto di cinque giovani che fa irruzione nell'aula. Sono chiassosi e al loro arrivo anche gli ultimi ragazzi che si erano attardati nell'aula escono frettolosamente. Quando i nuovi arrivati scorgono Richard lo indicano schiamazzando e, accanto a me, il ragazzo in questione si tende.
"Buongiorno Richard" sghignazza uno del gruppo mentre si avvicinano al nostro banco "che fai? Mangi di nuovo? Non credi die essere ingrassato abbastanza?" La bocca mi si spalanca da sola. Sono allibito: come può dire cose del genere? E come possono gli altri ridere?! Richard si alza nervosamente in piedi:
"Lasciami in pace Jamie. Non hai qualche ragazzina sbavante da corteggiare?" Lo stesso ragazzo che ha parlato prima – Jamie, bello e moro ma insopportabile – ghigna:
"Cos'è, sei geloso che le ragazze vogliano me e non un grassone come te?" Incredibile! Rimango a bocca aperta di fronte alla sfacciataggine e alla maleducazione di questo ragazzo. Fremo dalla voglia di intervenire e difendere Richard ma lo stesso ragazzo decide di rispondere a tono, dimostrandomi di avere più fegato di quanto credessi.
"Meglio essere grasso come me che idiota come te!" Poi la situazione degenera: il gruppetto si zittisce e Jamie, col volto paonazzo per il nervoso, scatta verso Richard con i pugni chiusi. Nel momento in cui iniziano a volare le mani mi alzo anche io cercando di separare i due contendenti.
"Hei, hei!" alzo la voce circondando la vita di Richard con le braccia per tirarlo indietro. Nonostante il branco di scimmie continui a incitare il combattimento, riesco, con non poca fatica, ad allontanare Richard da Jamie.
"Perché non ci diamo tutti una calmata?" dico cercando di non alzare la voce.
"E tu che c'entri eh? Sei geloso che il tuo amico le prenda e tu no? Guarda che ce n'è anche per te!" Comincio seriamente a spazientirmi.
"Hei cerca di calmarti un po'. Non sai neppure come mi chiamo e già mi minacci?" L'espressione di Jamie e del suo gruppetto si storpia in un brutto ghigno.
"Oh ma io lo so chi sei, Ilyen." Biascica "Ti abbiamo visto qualche giorno fa in giro per il paese vestito in modo indecente. Mi sorprende che nessuno ti abbia fermato per chiederti la tua tariffa oraria." Che cosa!? Non posseggo neppure abiti tanto succinti o corti da far immaginare una cosa del genere! Ripercorro rapidamente tutti gli spostamenti che ho fatto da quando sono in questa cittadina e l'unico evento che mi viene in mente è quando sono andato in bottega a comprare la colazione indossando dei pantaloni corti e una canottiera. Quindi è per questo che tutti mi guardano con giudizio? Solo a pensarci mi ribolle il sangue. Non starò zitto a farmi insultare.
"Sai a quella non ho ancora pensato, forse puoi consigliarmi la tua." Rispondo per le rime ed è divertente vedere quante sfumature di rosso raggiunge il suo viso prima che mi salti addosso. Jamie mi afferra per la camicia ma, prima che possa fare qualsiasi cosa, la campana suona nuovamente nel corridoio e il ragazzo si ferma a pochi centimetri dal mio viso. Metto su un sorrisino serafico.
"Forse dovresti tornare in classe." Suggerisco con delicatezza e falsa dolcezza. Jamie digrigna i denti ma alla fine si arrende con un esto energico e se ne va portandosi dietro il resto del suo gruppetto. Un nuovo professore entra in classe e le lezioni riprendono senza che il mio compagno mi rivolga la parola. A questo punto mi arrendo al fatto che questo ragazzo non voglia avere nulla a che fare con me. In realtà non passano più di dieci minuti prima che Richard, sempre con lo sguardo puntato sul professore, mi parli.
"Non avresti dovuto immischiarti," bisbiglia fra i denti "non erano cose che ti riguardano."
"Ti stava offendeva e per poco non ti dava un pugno." Rispondo con ovvia indignazione.
"Non erano comunque fatti tuoi." Assurdo.
"Preferivi essere colpito piuttosto che farti aiutare?"
"Non ho certo bisogno di essere salvato, men che meno da uno come te!" Sibila guardando nervosamente il libro che ha davanti e voltando pagina.
"Che vorrebbe dire 'uno come me'?" Sono veramente infastidito da questa storia. Come possono queste persone permettersi di giudicarmi senza neanche aver prima provato a conoscermi?
"Esattamente quello che ho detto." Mi risponde in un sussurro "Hai passato tutte le ore a disegnare senza ascoltare niente della lezione: il tuo rendimento scolastico deve essere terribile! Per di più sei strano e non dirmi che non hai notato come ti guarda la gente!"
"E io sarei strano? Sono stato pesantemente offeso solo perché sono uscito con i pantaloni corti! E' da quando sono arrivato che vengo riempito di giudizi presi a priori da cui non ho alcun modo di difendermi! E perché il mio rendimento scolastico dovrebbe essere di interesse pubblico? Siete tutti così ingessati." So che non sto mantenendo un tono di voce basso ma non mi interessa né della lezione né del professore. Adesso Richard mi guarda e nei cuoi occhi non ci sono solo fastidio e rabbia ma sono macchiati da una punta di paura che mi lascia confuso. Il ragazzo sussulta affannosamente e l'azione ha un che di teatrale e di disperato allo stesso tempo.
"Come ti permetti di dire queste cose sulla nostra splendida città?!" Alza la voce in un gracchio spezzato dal nervosismo; si guarda intorno, è strano, sembra che più che a me le parole siano rivolte al resto della classe.
"Adesso basta!" Il professore sbatte una mano sulla cattedra "Hopps e Williams, in presidenza!" Vorrei protestare ma Richard si alza e con i pugni chiusi, semplicemente, esce dalla stanza e non ho altra scelta se non quella di fare altrettanto. Mi chiudo la porta alle spalle. Richard cammina a grandi falcate verso una direzione ben precisa e io lo seguo fino ad arrivare davanti a una porta di legno scuro con su scritto in lettere d'oro lucido: "presidenza". Dall'interno provengono voci concitate ma non si riescono a percepire delle vere e proprie parole.
Fuori dalla porta ci sono alcune sedie e Richard si butta su una di queste incrociando le braccia e sbuffando sonoramente. Non posso fare a meno di soffermarmi a guardare la sua figura scomposta. Questo ragazzo è così diverso dalla gente che ho visto fino ad ora: non è magro né alto, la sua personalità non sembra impostata come quella delle persone che ho incontrato in questa cittadina, ma impulsiva e focosa. Richard Hopps è la persona più sincera che io abbia visto da quando mi sono trasferito. Mi accascio accanto al biondo e sbuffo sonoramente anche io. Passa qualche secondo in cui né io né Richard parliamo.
"Dovevi per forza immischiarti? Non potevi farti gli affari tuoi?" Scatta improvvisamente Richard, sbattendo una mano al muro. Non mi scompongo neanche, mi aspettavo una reazione del genere. Mi limito a voltarmi verso di lui e guardarlo, assorbendo i suoi occhi nocciola così comuni ma così particolari: brucianti.
"Hei" esclamo serafico "io sono strano, no? Di che ti sorprendi?" termino con un sorrisino che io stesso troverei antipatico. Richard alza gli occhi al cielo sbuffando di nuovo e nel corridoio cala il silenzio. Dopo pochi minuti di tensione il ragazzo emette un ulteriore sbuffo e scioglie le braccia.
"Senti, mi dispiace" borbotta senza neanche guardarmi in faccia "ti ho giudicato ancora prima di conoscerti." Ecco, questa è una cosa piacevole da sentirsi dire.
"Beh, in effetti non si può dire che abbia dato una buona prima impressione." Devo ammettere mio malgrado. La mia attenzione si sposta su un filo che mi esce dalla cucitura dei pantaloni e comincio nervosamente a infastidirlo.
"Il problema non sei tu." Sussurra il biondo. Nei suoi occhi balena una scintilla della stessa paura che mi ha turbato prima. Richard deglutisce, si guarda attorno per assicurarsi che siamo soli e infine, a voce talmente bassa da essere appena udita, dice: "Il problema è questo posto" La mia curiosità si accende come un fiammifero.
"Che intendi?" Chiedo corrugando la fronte. Richard deglutisce di nuovo e, sempre con aria circospetta, mi risponde: "C'è qualcosa di strano in questa cittadina... qualcosa di fuori dal comune... qualcosa di assolutamente non naturale." Sussurra lentamente, con le ciglia aggrottate, come se cercare e pronunciare queste parole gli costasse uno sforzo fisico.
"Cosa intendi per... non naturale?" Richard sposta nervosamente gli occhi in giro per il corridoio poi, finalmente, li punta nei miei e il peso del suo sguardo è quasi schiacciante. Apre la bocca ma non ne esce alcun suono. Mi avvicino per sentire quello che ha da dire. Ci riprova, visibilmente frustrato, ma di nuovo non una parola esce dalla sua bocca. Improvvisamente dada una porta alla nostra sinistra esce una donna vestita con un camice blu che ci lancia uno sguardo di disappunto prima di proseguire per la propria strada.
Quando mi volto di nuovo verso Richard lui non mi sta più guardando, i suoi occhi fissi a terra, trema leggermente e la sua espressione è contratta in una di nervosismo. Sembra una cosa seria, sono turbato da quello che mi sta dicendo Richard. Vorrei saperne di più ma, vedendo le condizioni di Richard, capisco che non è il caso di proseguire la conversazione. Decido di rimandare il discorso a un altro momento.
"Ok" sussurro. Mi alzo e comincio ad incamminarmi verso la direzione in cui mi pare di ricordare si trovi l'uscita.
"Hei!" Mi sento chiamare da Richard "Dove stai andando?"
Mi volto verso di lui trovandolo in piedi.
"Non so te ma io non ho intenzione di rimanere qui e prendermi una punizione, men che meno di tornare in classe. Me ne vado." Ricomincio a camminare e per un po' l'unico suono che si sente è quello dei miei passi leggeri ai quali, poi, si aggiungono quelli concitati di Richard che mi seguono. Quando il biondo mi passa accanto mi arriva una spallata e, guardandomi in tralice, tornando così l'odioso compagno di banco che mi ha volutamente ignorato per buona parte della giornata, mi sorpassa.
"Questa è l'ultima volta che parlo con te. E non raccontarlo a nessuno!" E detto ciò gira l'angolo e se ne va. Il piccolo momento di fiducia e confidenza che abbiamo appena condiviso ormai perso e dimenticato. Per evitare di essere scoperto dal personale scolastico decido di uscire da una delle finestre del piano terra e, con la testa piena di pensieri, mi avvio verso casa cercando di ideare una buona scusa per il mio rientro anticipato.
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Il Sigillo
FantasyIl campo di battaglia è un lago di sangue. I corpi che lo occupano indistinguibili, incrostati di fluido rosso. Non cerco nessuno, so che se li trovassi morti non riuscirei a fare quello che devo. In ogni modo, con molte probabilità oggi morirò an...