prologo

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      ‘Ciascuno di noi vive la vita che ha scelto di vivere’ era diventato il motto della famiglia Hawkins. La signora aveva dipinto personalmente quelle parole - a caratteri cubitali - nel grande salone al piano terra, appena dopo l’ingresso, così che chiunque varcasse la soglia della porta potesse notarle. 

Nero su bianco, Rose le leggeva ogni dannata mattina prima di uscire di casa. Ogni stramaledetto giorno fronteggiava i desideri dei genitori, le loro assurde richieste di far della sua esistenza ciò che loro non erano stati capaci di fare con la propria. 

“Mamma, non mi interessa la medicina” si era azzardata a dire un giorno, mentre leggeva l’esito positivo della facoltà di Harvard. La signora Hawkins impallidì, per poi tramutare quel suo pallore in un color rosso fuoco di rabbia ed indignazione nei confronti della figlia. “Sei entrata ad Harvard e fai la schizzinosa Roseline, io davvero non ti capisco” aveva tentato di dire con tono pacato, mentre con sguardo tipico di chi è pronto ad uccidere osservava il viso della ragazza.

Tutta la conversazione era poi sfociata in urla e parole gettate al vento dopo l’ingresso del padre; forse più ragionevole della moglie, questo aveva osato spalleggiare la figlia. Mai mettersi contro una donna già priva del proprio senno.

Per tutto l’anno scolastico era andata avanti così, fra lettere di ammissione e richieste di borse di studio. Rose non aveva idea di cosa fare del proprio futuro, le piaceva la musica, l’arte, adorava le serie televisive di Fox Crime e quei libri ambientati in realtà distopice, cosa se ne sarebbe fatta della Medicina? Fatto stava che, Harvard o non Harvard, le servivano soldi. 

E l’avvento dell’estate sembrò la migliore occasione per racimolare qualche dollaro ed ottenere un minimo di indipendenza economica. 

Diciotto anni con la consapevolezza di dover dipendere da i propri genitori non è mai stato in cima alla lista dei desideri di qualcuno.

I lunghi capelli castani cadevano morbidi sulle spalle, mentre gli occhiali da sole a mo’ di cerchietto impedivano a ciocche ribelli di caderle davanti il viso. La California d’estate era uno dei miglior posti del pianeta probabilmente: le strade soleggiate e le grandi palme le davano un senso di libertà, seppur coronate dal fastidioso rumore del traffico di Long Beach. 

Gli occhi cerulei erano fissi sul cellulare, mentre con passo spedito si dirigeva alla piccola caffetteria che faceva angolo con il negozio di dischi ‘Reckless Records’.

“Ce l’hai fatta ad arrivare!” disse Maya venendole incontro, costringendola a mettere da parte l’Iphone per concentrarsi sull’amica.

Maya aveva i capelli color biondo cenere e gli occhi scuri, mentre fin troppe lentiggini le coloravano il volto magro. Era bella Maya ma non lo sapeva.

Rose appoggiò le labbra sulla guancia dell’amica per salutarla, entrando poi nella caffetteria e sedendosi al primo tavolino libero. 

Scivolò nel lungo sedile in pelle rossa, lasciando a Maya l’incarico di ordinare per entrambe. Giocherellava con il telefono sulla superficie fredda e grigia del tavolino quando l’attenzione le cadde su un volantino dai colori sgargianti affisso al vetro del locale.

‘Adventureland riapre i battenti anche quest’estate - recitava - se hai più di diciotto anni unisciti alla compagnia e rendi indimenticabile la giornata di qualcuno!’ Lesse velocemente i recapiti telefonici, per poi aprire l’applicazione della fotocamera e salvare quelle poche informazioni nel rullino del telefono. 

L’idea di passare l’intera estate a lavorare non l’allettava, ma era anche vero che, se voleva liberarsi dell’opprimente influenza che i genitori avevano su di lei e sul suo futuro, aveva bisogno di soldi. 

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