HELLFIRE 3' Capitolo "Lilith"

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Iniziò tutto quando avevo circa due anni. O forse prima. Non ricordo con esattezza. Ma ero soltanto una bambina e non mi rendevo conto di quello che mi stava accadendo.

Credo pensassi fossero soltanto degli incubi talmente reali da sembrarmi veri, i mostri che si materializzavano davanti ai miei occhi.

L'infanzia finisce quando ti rendi conto che i veri mostri non esistono nelle fiabe, ma nel mondo reale, e io lo compresi quasi fin da subito.

Perché avevo la capacità di vedere.

Correvo tra le braccia dei miei genitori adottivi, Susan e Dennis, ogni volta che vedevo quella gente contorcersi accanto a me.

Li vedevo ovunque.

Quando passeggiavamo per strada, mentre facevamo la spesa al supermercato.

Anche quando ascoltavamo in chiesa l'omelia del reverendo della nostra parrocchia.

Uomini, donne, ragazzi e ragazze che soffrivano, in modo indicibile, che si lamentavano o che piangevano. Ma erano come sagome indistinte, nude, delle quali non riuscivo a intravedere i volti.

Appena fui abbastanza grande, come era logico i miei genitori adottivi mi portarono da uno strizzacervelli, uno dei più bravi di Portland, specializzato in turbe dell'infanzia.

La sua soluzione fu imbottirmi di psicofarmaci.

Funzionò, perché per qualche tempo quelle orribili visioni sparirono.

Tornarono quando mi iscrissi alla scuola elementare. Il primo giorno di scuola, appena entrata in quei corridoi, mentre camminavo accanto a mia madre con lo zaino sulle spalle, rividi quella gente che si aggrovigliava sul pavimento, come dei vermi infilzati all'amo.

Stavano soffrendo, era chiaro provassero dolore.

Stavolta però, non le dissi nulla.

Decisi che non ne avrei più parlato con nessuno e che avrei fatto finta che quelle persone che mi circondavano, non esistessero.

Continuai a camminare, stringendo la mano di mia madre, sorridendo.

E finalmente scomparvero.

Da quel giorno in poi, non vidi più quella gente che agonizzava in ogni luogo io andassi, finché non compii dieci anni.

I bambini possono essere crudeli, questo è risaputo, ma io avevo sempre cercato di andare d'accordo con tutti i miei compagni di scuola.

Perfino con Myles Bishop, che era sempre stato il bullo della classe e lo avevo sopportato per anni. Quel giorno, tra una lezione e l'altra, mentre tutti erano in cortile per la pausa pranzo, mi aveva trascinata in un'aula deserta.

Si era messo in testa di alzarmi la gonna e di prendermi le mutandine, per mostrarle ai suoi amici come trofeo.

Cercavo di reagire, di spingerlo via, ma Myles era già un ragazzino alto e mi stava facendo male, sbattendomi di continuo contro il muro.

Quando la rabbia cieca aveva preso possesso del mio corpo, tutto aveva cominciato a girarmi attorno. E avevo sentito un gran caldo.

L'esplosione era seguita subito dopo.

La polizia aveva detto che era stata dovuta a una fuga di gas nelle cucine della sala mensa, ma l'incendio aveva distrutto tutta la scuola elementare.

Io e Myles eravamo fuggiti dalla finestra, perché per fortuna ci trovavamo al pianterreno, prima che le fiamme ci raggiungessero.

Una volta fuori, quando i vigili del fuoco e i nostri insegnanti ci erano venuti incontro, Myles mi aveva scrutata con terrore.

Aveva capito che era stata colpa mia.

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