RIVELAZIONE

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«Dormi ora, domani passerà tutto»

In tutto ciò che di spiacevole mi accadde in vita, speravo che finisse con l'alba dopo una notte di sonno. Un litigio, un problema di soldi, un conto in sospeso, un lutto, un intervento delicato: "dormi ora, domani passerà tutto". Non ho ormai una concezione del tempo, mi sono anche dimenticato del suo significato reale, non nozionistico, so ancora che il tempo è un susseguirsi di eventi, una misura che la mia specie adoperava dall'alba della sua nascita; quante ore sono passate? Quanti mesi? Forse anni, non lo so più, ma ricordo di essermi svegliato. Ricordo che era tutto passato. Tutto era finito. Sentii l'aria fredda gelarmi gli occhi appena aperti, sentii il silenzio; un silenzio che non avevo mai sentito prima, un silenzio che anelavo da troppo tempo. Nessun baccano, nessun vociare, nessun urlo, nessun vetro rotto, nessuna sirena della polizia, nessun pianto. Era tutto finito. Mi alzai dal letto, mi colse un leggero capogiro, rabbrividii, che ore si erano fatte? Non avevo dormito così tanto in tutta la mia vita, non avevo mai dormito così profondamente. Devo aver esagerato, nessuna luce filtrava dalla finestra. Pensai, con una certa malinconia, che fosse di nuovo notte, che avessi dormito per un intero giorno. Uscii da camera mia. Era buio. Camminai a tentoni, tastai il muro cercando un interruttore. Lo trovai. Niente. Premetti freneticamente ma la luce non appariva. Fu la prima volta che avvertii un terrore ancestrale, un terrore che solo qualcuno che sente di essere in pericolo di vita può percepire. Chiamai i miei genitori, urlai mentre ero paralizzato e appiattito al muro. Era tutto troppo strano. Troppo silenzio. Troppo buio. Urlai con tutto il fiato avessi in corpo ma nessuno mi rispose. Urlai e bestemmiai, mi sentii tremare ormai in preda all'irrazionale, proprio io che imparai a vedere la luce della ragione in ogni cosa, ad essere scettico su tutto, anche su me stesso. Decisi di correre, di fare mente locale sulla disposizione della mobilia della mia casa, sbattei più volte contro i muri, le sedie. Come era possibile che nessun raggio di luce dei lampioni fuori casa illuminasse qualcosa? Pareva che le finestre e le porte fossero blindate, coperte da qualcosa. Continuai a urlare, in un tentativo goffo di spaventare qualche predatore nascosto. Il mio cervello era ormai vulnerabile, si convinse che io fossi inseguito da un orda di demoni urlanti e assetati della mia carne, quando in realtà c'era solo quell'orribile e soffocante silenzio. Urlai di nuovo, sentii un forte dolore alla gamba, non ebbi idea di cosa fosse, ma continuai a correre, ad ansimare, sentivo che anche l'aria stava venendo assorbita dal buio e le voci nella mia testa aumentavano, bramavano me, volevano strapparmi la carne, mangiarla, scavare nel mio ventre. E sia allora, trovatemi e facciamola finita. Corsi, sfondai una finestra. Caddi.

Sentivo male in tutto il corpo, ripresi a respirare, piansi. Ero fuori di casa. Che stupido, che idiota mi sentivo, chissà che avrà pensato il vicinato sentendo la baraonda che avevo fatto. Ci deve essere stato un banale black-out e io che ho fatto? Ho urlato e per poco non mi ammazzavo. Mi mossi, tutto ok, il dolore era provocato solo dai graffi sanguinanti. Nessuna frattura, fortunatamente. Aprii gli occhi. Era notte. Nessun lampione era acceso, non c'era nessuno, tutto era grigio. Che assurdità, come è possibile che senza illuminazione, io possa vedere qualcosa? E il cielo, nemmeno una stella, niente. Questo non è un sogno, e per accertarmene, lessi ogni cartello stradale ad alta voce: i caratteri erano distinti, i numeri erano tutti riconoscibili, leggevo tutto senza alcuna difficoltà. Ogni colore era come risucchiato via, spento, appassito. Non è possibile, mi ripetevo, non è possibile tutto questo. Ogni congettura, ogni teoria e ipotesi mi esplodeva nel cervello, ma niente mi convinceva. Chiamai i vicini. Guardai ogni casa dall'esterno, sembravano disabitate. C'è qualcuno in questo cazzo di posto? Se è uno scherzo del cazzo, vi giuro che vi ammazzo! Come era possibile che qualcuno così in vena di scherzi, avesse architettato questo incubo transustanziatosi in realtà? Balbettai, iniziai a ridere e a piangere, a correre scalzo per le vie del mio paese urlando, bestemmiando, cercai di creare il più scalpore possibile con la speranza di essere accalappiato da uomini in divisa o col camice bianco. Urlai oscenità, lanciai sassi sulle vetrate, pensai di entrare in qualche negozio e rubare qualcosa, ma l'idea di rientrare in un posto completamente buio mi terrorizzava ancora di più. Ed eccolo, puntuale, un attacco di panico. L'ennesimo. Il cuore mi strizzava la gola facendomi mancare il respiro. Tremai, le gambe non mi reggevano. Crollai in ginocchio. Le mie gambe scattavano, sentii freddo, poi caldo, continuai a urlare, mi portai le mani sulla testa e infilzai il mio viso con le unghie e graffiai. Il sangue si mescolò alle lacrime e al moccio. Piansi fortissimo, come un agnello sotto la scure del suo boia. Non mi resi conto di trovarmi a terra nel parco giochi lontano un paio di chilometri da casa. Poco dopo, i miei singhiozzi furono interrotti da un rumore.

Camminai accompagnato dal canto che ormai era divenuto la mia colonna sonora. Mi diressi verso l'uscita della città, percorrendo la strada che la collegava con gli altri paesi della provincia. Eccolo. Il buio. Il rettilineo si disperdeva nel nulla, il grigio dell'asfalto era tranciato bruscamente da un abisso. Lì dove un tempo riuscivo a vedere le luci di altri piccoli paesi che illuminavano le colline, ora vedevo un muro di pura oscurità. Avrei dovuto essere ancora più terrorizzato, ma la paura ormai, era divenuta accettazione per quell'assurdo incubo che stavo vivendo. Con l'innaturale calma distaccata che mi coglieva quando la disperazione diventava assoluta, andai incontro all'abisso. Allungai il braccio insanguinato cercando di tastare la consistenza del nero.

Il mio braccio era integro, non era monco come la strada, e quello non era un muro di oscurità. Tutto era come se fosse troncato chirurgicamente esattamente in quel punto. Come se un gigante con un bisturi, avesse asportato la città e adagiata nel nulla. "Buttati". Mi suggerì il mio cervello. "Buttati e finiamola qui". Ma, mi risposi, se cadessi in eterno? Se non colpissi mai un ostacolo? Se avessi continuato a cadere fino alla fine dei miei giorni? Però, lo shock potrebbe frantumarmi il cuore e morire di infarto di lì a poco. Risi ancora. Tutto ormai era uno scherzo. Ho passato la mia intera esistenza schifando malattie ed essendo parsimonioso, a proteggere la mia disgustosa pelle, i miei risparmi, i miei affetti, e ora mi trovavo a riflettere su come ammazzarmi. Mi sedetti e lasciai ciondolare le mie gambe sul vuoto. Era tutto realmente finito. Pensai di ritornare indietro, di arrampicarmi e buttarmi giù da qualche parte. Un colpo secco, nessun dolore, finalmente libero. Da un abisso, sarei finito in un altro meno spaventoso, dove la coscienza non esiste, così come la paura. E se fossi già morto? O in coma? Tornai a quell'assurda realtà spinto dalla curiosità di cosa fosse quel canto. Iniziava a comparirmi familiare, accogliente, quell'orazione funerea era l'unica compagnia che avevo. Mi alzai, tornai indietro cercando ancora una volta la fonte di quella meraviglia macabra. Camminando, notai con folle entusiasmo che non vi erano nemmeno animali in giro. Tutto mi appariva come una stupenda opera d'arte, il tocco di un maestro che aveva portato in vita le mie più oscure paure. Che lavoro magnifico. Il terrore puro. La frenesia colse il mio corpo facendomi sorridere dall'eccitazione. Mi commossi. Iniziai a vedere tutto come se stessi studiando il più bel dipinto che avessi mai visto. Poco dopo, lo sconforto ritornò.

Il canto cessò improvvisamente . No. Perché, ora? Continuate, vi prego, siete l'unica cosa che ho. L'ultima meravigliosa musica che mai ascolterò in vita. Perché, mi chiesi, perché anche questa piccola gioia sta svanendo? Mi abbracciai da solo, mi accarezzai sulle spalle cercando di consolare il fanciullo spaventato che era in me. E di lì a poco, la luce.

Ogni mia emozione era annullata. Ero riuscito a distruggere ogni empatia, sentimento umano pur di proteggere la mia mente dalla follia. E tutti gli uomini e donne che raggiusero quelle bestie alate, caddero sulle loro facce dinanzi loro, cantando odi e glorie, con voce strozzata dall'isteria e commozione. E quando la mascella del Cristo titanico scattò violentemente, lasciando pendente la lingua e colare un denso rivolo di pus e bile, gli equini immondi si imbizzarrirono pestando i crani dei fedeli in adorazione, danzando nel sangue, schizzando ovunque interiora e cervella, portando la folla in grida estatiche e canti ancora più frenetici, mentre circa un terzo di loro, veniva mietuto dai vermi immondi che banchettavano avidamente.

Gloria all'altissimo, pensai, gloria all'altissimo bastardo. È questo allora il paradiso che quei folli anelavano più di qualunque mellifluo piacere terreno? È questa la redenzione? La salvezza data da un cadavere putrefatto? Dov'è la vita? Dov'è la gloria? Dov'è la beatitudine? Io sono morto, e questo è il paradiso che non ho mai voluto. Bestemmiai con rabbia, sputai verso quell'aberrazione, quando mi accorsi, allo zenit, due occhi immensi celati dalla coltre dorata del cielo. Osservavano qualunque cosa. E osservavano me.

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