𝟑.𝟗 - 𝐩𝐞𝐫𝐝𝐨𝐧𝐨

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Manfred ed Enea erano ancora lì, l'uno fisso negli occhi dell'altro, entrambi con lo sguardo velato di lacrime e malinconia.
«P-perché a lei dai corda e a me no, Enea?» ringhiò Manfred, «Perché lei sì e io no? Non è stata forse lei a respingerti!?»
«Sei stato tu il primo!» gli urlò contro il professore, «E ora non puoi pretendere che se provi a scoparmi risolvi tutto. Io voglio chiarire con lei, Manfred, perché sei qua? Per sapere come sto? O per altro!?»
Si avvertiva rabbia, aggressione nelle sue parole, e nei suoi occhi replicava l'espressione delle stesse. L'aviatore lo guardò con delusione... proprio lui, che di delusione ne aveva sempre causata.
C'era qualcosa negli occhi di Enea, un'ombra, uno spicchio di luce che si ravvivava e si spegneva, come una lampadina quasi rotta. C'era un senso di smarrimento, come se non si capisse quel che stava provando, o forse lo stesse esprimendo nel modo sbagliato.
C'era... c'era necessità, nei suoi occhi, senso di bisogno, di appartenenza... c'era desiderio, ed era un desiderio che lui non poteva dargli.
A quel punto, fu Manfred a scoppiare in lacrime: prese il volto fra le mani, lo tenne stretto e lo affondò tra esse, un gesto che Enea avrebbe potuto aspettarsi da chiunque, ma non da lui. Avrebbe voluto chiedergli ah, ma fai anche la vittima adesso?, eppure si trattenne, perché quel pover uomo riusciva a provare empatia persino per il peggiore tra gli esseri. Manfred lo era? Forse, forse sì, ma non riuscì a frenarsi e andò in cucina a prendergli un fazzoletto di stoffa, che in seguito gli porse mentre lo faceva accomodare ai bordi del letto. Si appostò al suo fianco, non senza una certa reticenza, ed ebbe la forza di guardarlo negli occhi solo quando sussurrò flebilmente tra le labbra:«Grazie.»

Enea annuì sbrigativamente, poi incrociò le braccia al petto e lo lasciò parlare, senza intervenire con inutili domande o affermazioni. «Quando mesi fa ti vidi per la prima volta dopo, che ne so, otto anni?» iniziò, «ebbi come un tremito al cuore. Io Créuse l'ho sempre invidiata, anche se non gliel'avevo mai detto, e... e  vederla così felice, con te, mi faceva male. Ora tu mi dirai che anche noi avremmo potuto esserlo, se solo anni fa, a Palermo, non ti avessi allontanato in quel modo, e hai terribilmente ragione, ma... ma ero un ragazzino, e lo eri anche tu. Io ero quello che sognava di volare nel cielo, quello vero, tu colui che già volava nei suoi sogni. Avevi iniziato l'università proprio quell'anno, dopo essere stato promosso a pieni voti al Gymnasium, e... ed eri sempre così preparato e pronto a voler condividere la tua conoscenza che io rimanevo ineffabile di fronte a essa. Tu, quel ragazzo solo apparentemente timido e che in realtà risultava così estroverso, sempre gentile, sempre sorridente, sempre così sensibile alle difficoltà altrui. Fosti tu a salvarmi quel giorno, quando andai alla deriva, e davvero non so come abbia fatto a respingerti dopo quella sera... Tornando al presente, se c'era qualcosa in cui prendevo in giro Créuse era sicuramente la sua incompetenza in ambito sentimentale. Poi ha trovato te, e vedevo che finalmente era felice, che tu la rendevi felice. Sentii rabbia, dolore, che provai a dividervi l'una dall'altro, e mi devi credere che se sono qua è solo una coincidenza: sono appena tornato da una missione in Bosnia ed Erzegovina, dato che sul confine sono ricominciate le ostilità con la Croazia, e non per trovare i miei nonni in Germania: è stato tuo fratello Tony a dirmi di tornare perché doveva parlarmi urgentemente...»
«Tony?» lo interruppe solo allora Enea, sorpreso dal fatto che i due, a distanza di tempo, fossero ancora in contatto, «Cosa vuole da te?»
«Non c'entri tu in questa storia, e tuo fratello non vuole che si sappia. La visita che gli ho fatto stasera — prima che la signorina Thomas mi dicesse dove ti trovassi — era proprio per lui, ed era per questo che avevo chiamato Créuse e poi ti sono venuto dietro», rispose. Sembrava sincero dalle sue parole, ma Enea vi parve sempre diffidente. Era vero, Manfred non gli stava nascondendo nulla, ma dopo tutto quello che aveva passato anche la minima confessione pareva celare qualche significato occulto, ombroso, misterioso, quasi infido.
«In ogni caso», riprese poi a parlare, «ti voglio chiedere una sola cosa.»
«Spero che sia un quaero e non un peto*[1]», esalò il professore, riferito chiaramente a domande con allusioni corporali e sessuali.
Manfred scosse il capo:«È sempre un peto, ma non mi riferisco a quello. Vorrei chiederti perdono, anche se suona patetico.»
Enea lo squadrò di sottecchi, poi alzò lo sguardo verso il soffitto dando l'idea di uno che stava pensando, roteandolo e riconducendolo infine a terra.
Manfred, quell'essere che durante tutti quegli anni aveva sognato, sotto forma di incubo o di qualcosa di celestiale, che ora voleva... essere perdonato. Gli appariva tutto così grottesco, così confuso, così... strano. Lo fissò negli occhi, però, e alla fine, solo alla fine, capì che la sofferenza non aveva persona: buoni, cattivi, giusti, sbagliati... tutti venivano colpiti dal male, esso potesse essere morte o dolore.
Adesso il discorso che Friedrich Möller gli aveva fatto a novembre acquisiva più senso: non importava quale ideologia si seguiva, l'animo umano veniva indistintamente afflitto, distrutto, e giudicarlo sempre con estrema severità solo perché una persona la si riteneva cattiva non era etico, almeno nella concezione di Enea.

𝐂𝐎𝐌𝐄 𝐋𝐀 𝐌𝐄𝐍𝐓𝐄 𝐄 𝐈𝐋 𝐌𝐄𝐓𝐀𝐋𝐋𝐎 ✓Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora