Fu un potente raggio di sole ad aprire un varco tra le sue palpebre pesanti.
Provò a sbatterle, ma erano appiccicate da lacrime e qualcosa di fastidioso simile a granelli di sabbia.

«Auguri, bella addormentata!»

Lena sentì la sua voce uscire in un suono strozzato. Per un attimo pensò
"Nico!", ma una vocina le ricordò che non poteva essere lui. Nico era morto.

Non ricordava il motivo, ma sentiva che era così. "Perché auguri?" non era
il suo compleanno, in teoria. Era fine estate, da quel che ne sapeva, ma non
poteva essere già settembre.

«Ehi, ci sei? Mi senti?» Era la voce di un ragazzo, ma non era Nico. Non
era nemmeno Gio. E Genna? Dov'era Genna?

«Sveglia sveglia! Ula ula!»

«Chi t'incula?»

«Taci scemo, mi hai rovinato la radiosveglia.»

«Non sei una radiosveglia, sei un cretino.»

Lena provò a muoversi, ma non era ancora riuscita ad aprire gli occhi. Si era
aggiunta una nuova voce, sempre di un ragazzo. Aveva già capito che erano
due cretini, ma non erano i suoi amici; e non c'era Genna.

Continuavano a beccarsi su chi e come dovesse svegliarla, anche se lei era già
sveglia; avrebbe voluto urlarlo ma non ne era capace. Si sentiva debole e distante,
come fosse sotto una cupola di vetro. Sentiva le voci ovattate ma vedeva
la luce troppo bianca del sole.

«Scemi tutti e due, la smettete?» Una voce di donna, giovane e limpida, fresca e dolce come la brezza di primavera in riva al mare. Sembrava Genna, ma non era lei. Era una voce più matura rispetto alla sua e più consapevole, di qualcosa che Genna forse non avrebbe mai potuto sapere.

«Siete proprio stupidi. Questa povera ragazza deve averne passate già tante e deve risvegliarsi dopo giorni di coma con le vostre urla sulle orecchie? Cretini. Spostatevi che penso io a lei.»

Coma? Era stata in coma? Giorni? Sentì qualcosa di morbido e fresco passare all'improvviso sopra i suoi occhi, rimuovendole quell'appiccicume
che le incollava le palpebre. Le sbatté con cautela.

La luce la colpì con violenza e la nausea salì rapida come contorno. Rigettò liquidi che non ricordava di aver bevuto e acido che le raschiò la gola. Tossì, schiarendosi per bene le corde vocali; pian piano cominciava a vedere qualcosa.

«Ehi, mi senti? Mi vedi?» Qualcuno le pulì la bocca. «Se riesci a sollevarti un po' ti aiuto a cambiarti. Hai vomitato.» La sua voce era così dolce, ma aveva un che di materno. Non le ricordava più Genna, ma sua mamma. Si disse che non poteva essere nemmeno lei, era morta da molto tempo; cercò di concentrarsi su quello che le stava dicendo per scacciare il dolore che provava a livello del petto.

Annuì o almeno provò a farlo. Dove cavolo si trovava? Attorno a lei il posto non era luminoso come le era sembrato. Un debole raggio di sole entrava dalla finestra accanto al letto dov'era distesa. Adocchiò pareti grigie coperte di muffa, qualche sedia sparsa a casaccio, un vecchio armadio, un tavolino.

"Dove sono?" Si sentiva smarrita ma incredibilmente calma, forse a causa di quel torpore che ancora la manteneva avvolta nel suo guanto di ghiaccio.

«Ho freddo» disse invece.

Delle mani le si avvicinarono e le strofinarono le spalle. «Sei al sicuro, tranquilla, ora ti vado a prendere una coperta.»

Lena toccò il materasso duro sotto di lei e avvertì subito il calore di una
coperta. Voleva urlarle che non serviva si allontanerà, che ce l'aveva già una coperta, ma dalla bocca non le uscì alcun suini. Si avvolse nella lana ispida che sapeva da chiuso. Ora la sua vista si era schiarita dalla nebbia, ma non aveva molta voglia di guardarsi intorno. Chiuse di nuovo gli occhi.

Li riaprì sentendo dei passi che si avvicinavano. «Ehi, non dormire ora. Devi
mangiare qualcosa e cambiarti, magari farti un bagno se te la senti. Abbiamo acqua pulita e qualche vestito in più e forse c'è un po' di zuppa calda per pranzo.»

La donna che la fissava sorridendo con dolcezza non era bella, ma le ispirò
un sorriso, che provò a renderle.

«Come ti chiami?»

«E...Ehm, Lena.» La sua voce era roca e impastata. Tossì di nuovo sentendo
solo allora il sapore acre che le era rimasto in bocca.

«Lena. Carino. Io sono Rebecca, ma puoi chiamarmi Rebbi. È più veloce.
Allora, Lena, la vuoi quella zuppa?»

Lena si sentiva la maglia bagnata di vomito; non aveva nemmeno il coraggio
di guardarsi. La donna, Rebbi, probabilmente l'aveva capito, perché annuì sorridendo con dolcezza. «Se ce la fai ad alzarti posso portarti a fare un bagno.»

«Grazie.»
Si tirò su lentamente. Le girava un po' la testa. Rebbi fu pronta a sostenerla e
con calma la accompagnò fuori dalla stanza. Si sentiva talmente stanca e intorpidita che non si accorse nemmeno di stare camminando.

Vide solo un corridoio, qualche scala, provò la fatica di salire un paio di piani e di stare in piedi con la testa che vorticava.

«Ecco il bagno. Ti aiuto se vuoi.»

«Grazie.» Quando parlava si sentiva rimbambita, come una bambina con un
ritardo mentale e lo sguardo fisso nel vuoto. Come Emilia, una bimba dell'asilo
dove Lena aveva prestato servizio come aiuto per la mensa. «Puoi, puoi anche andare se hai da fare. Ce la faccio.»

«Va bene, lascia tutto dentro quella cesta. Poi ci penserò io. Vado a cercarti dei vestiti
puliti.»

«Oh, sì, grazie.» Guardò Rebbi uscire e si sentì un po' male a rimanere sola.
Cercò di farsi coraggio ed evitò di guardarsi allo specchio. Il bagno era piccolo,
vecchio ma abbastanza pulito. C'erano una vasca da bagno e una doccia con la
tenda giallastra, un lavandino e sanitari vecchi ma almeno constatò che lo sciacquone funzionava. In quella situazione era più di quello che avrebbe sperato.

In un angolo vide una cesta di vimini. Si tolse i vestiti e li sciacquò prima di lasciarli dentro.
Mentre aspettava che la vasca si riempisse si sedette sul bordo; guardava con fastidio la doccia, che le avrebbe permesso di essere pulita in poco tempo per poter tornare a letto, ma si sentiva troppo debole per stare ancora in piedi.

Con il rumore dell'acqua che usciva dal rubinetto si rilassò; i suoi pensieri
volarono ai suoi amici, a Genna, a sua sorella, alla casa che aveva lasciato. Si sarebbero mai ritrovati? Con tutto quello che stava succedendo era già molto aver trovato un posto sicuro, ma avrebbe voluto anche loro con sé.

Si immerse nell'acqua, gelida. Certo, cosa aveva sperato, che ci fosse acqua calda?
Si strofinò la pelle con una saponetta ridotta all'osso, pensando a chi potesse averla usata prima. Quanta gente c'era lì? E dov'era, esattamente, lì?

"Basta, ora basta". Tentò di bloccare i suoi
milioni di pensieri, almeno finché non avrebbe potuto avere delle risposte. Si abbandonò all'acqua e al deprimente senso di vuoto attorno a sé.

Aveva freddo, ma quando uscì dalla vasca si sentiva un po' rinvigorita dall'acqua e da una discreta sensazione di pulito.
Tremando arrancò verso la porta. La aprì timidamente. Non c'era nessuno, ma attaccata alla maniglia c'era della roba, probabilmente lasciata lì da Rebbi; un asciugamano grande e non troppo ruvido, in cui si avvolse grata, e dei vestiti. Con stupore trovò anche un phon dentro il mobiletto sotto al lavello. Niente filo.
Provò ad accenderlo e funzionava. Un phon a batterie. Dove l'avevano trovato?

Si asciugò i capelli, sentendosi quasi bene con quel calore familiare. Avendo i capelli lunghi il phon era indispensabile. Doveva essere ancora agosto, forse, ma era freddo.

Rebbi le aveva lasciato un paio di pantaloni
di tuta blu, una maglia grigia a maniche lunghe e una felpa blu con cappuccio. Si vestì e azzardò uno sguardo allo specchio.

I capelli erano aggrovigliati ma puliti, un po' opachi, i suoi occhi erano stanchi, le labbra screpolate.

Si sentì orribile. Scosse la testa e uscì dal bagno rendendosi conto di non sapere dove andare.

Fece due passi a caso guardandosi intorno e sbatté addosso a qualcosa. Si ricompose per rendersi conto che quella cosa era una persona talmente magra e sottile da poter sembrare la parete di un muro.

Eppure quando incontrò il suo sguardo ci vide una forza talmente grande che si sentì rimpicciolire.

YanesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora