Alberi neri come inchiostro si protendono verso un cielo violaceo, macchiato da gonfie nuvole scure. I loro rami sono le braccia rinsecchite di uomini senza vita, i loro fusti si ergono solitari nonostante siano circondati da centinaia di tronchi del loro medesimo colore. Continuo a camminare, calpestando fili neri d'erba, scuri come se fossero stati soffocati con litri di petrolio assassino. Angosciato, il mio sguardo si trascina da un ramo all'altro, alla disperata ricerca del verde: mi accontenterei anche di una sola foglia per testimoniare che, in questo luogo, abitano non soltanto solitudine e disperazione. Appoggio la mano su uno di questi tronchi che mi circondano e rimango disorientata perché non hanno corteccia, sono lisci come marmo, ma appiccicosi come vernice fresca, non percepisco alcun calore al loro interno, chissà se un tempo conoscevano il colore che questo petrolio ha travolto, oppure se sono nati già neri, figli della solitudine del silenzio.
Rivolgo i miei occhi al cielo, il cui colore viola mi appare bizzarro, fuori posto. Allungo le braccia, per cercare di percepire la frescura di una brezza, per tentare di avvertire un venticello che doni moto a questo bosco, statico come un dipinto appeso in un museo; per capire se, sotto questa volta dal colore singolare, esista qualcosa di simile allo scorrere del tempo. L'aria è immobile, sempre ammesso che questa atmosfera contenga l'etere invisibile, ma ne dubito. Sotto il cielo viola non penso possa esistere aria, sono una candela sotto una campana di vetro. Che pensiero spaventoso.
Proseguo fino a giungere al limitare del bosco di alberi di inchiostro: davanti a me una casa dall'aspetto ancora più strampalato del cielo viola sotto il quale è costruita. È storta, ma le sue mura non sono semplicemente inclinate, oblique rispetto al terreno, bensì sbilenche, ricurve verso destra, come se, da un momento all'altro, dovesse ripiegarsi su se stessa e collassare. Sembra il disegno fantasioso di un bambino che non sa alcunché di proporzioni o di leggi matematiche, ma rappresenta il mondo come lo vede nella sua testa. Mi domando quale architetto possa aver costruito un edificio così folle e quali insani stratagemmi abbia escogitato per farlo stare in piedi. Certamente chi vi vive deve essere un uomo alquanto eccentrico. Da dove mi trovo posso osservarla bene e, più mi concentro, più mi appare come un disegno bislacco, la presa in giro di un pazzoide: le due linee che contornano la casa non salgono parallele, ma si restringono fino ad incontrarsi in un ricciolo ricurvo. Anche le finestre seguono l'andamento dell'edificio, sono protette da sbarre a croce e, osservandole, posso dedurre che ci siano tre piani. La finestra più in alto mi lascia perplessa e incredula perché non segue alcuna logica o coerenza: è a ridosso del ricciolo ed è sbieca, posizione insensata, nessuno potrebbe mai affacciarsi senza andare contro la legge di gravità. L'intera costruzione proietta un'ombra inquietante sul terreno secco, forma a me sconosciuta e quindi fonte di antico timore, ma che, al medesimo tempo, stimola in me una curiosità altrettanto primordiale. Il desiderio di conoscere vince la paura che quelle forme ignote avevano suscitato e, come fosse vento, mi spinge ad avanzare. Avvicinandomi mi rendo conto che le mura della casa sono assi di legno, hanno un aspetto vecchio e trascurato, al limite del marciume. Indecisa sul da farsi, mi fermo davanti alla porta, ma prima che possa concentrarmi a riflettere sull'eventualità di bussare, qualcosa attira la mia attenzione: il terreno davanti a me è cosparso di macchie rosso scuro, come sangue rappreso, gocce che formano una scia che si addentra alla sinistra della casa. Ancora più incuriosita che intimorita, decido di seguire la traccia, che mi conduce in un orto, cinto da basse assi di legno, divorate dai tarli e sbiadite. Scavalco la recinzione e noto file di una strana verdura sconosciuta: la parte visibile dell'ortaggio è composta da tubi sottili contenenti un liquido rosso, che sbucano dal terreno come cespugli, intrecciandosi tra loro e rituffandosi sotto quella terra così secca da apparire impossibile che possa ospitare la vita. Il fluido vermiglio scorre nei tubi che si muovono in continue contrazioni, pulsanti senza sosta, ogni ortaggio al proprio ritmo, ignorando l'andamento degli altri che lo circondano. La scia che mi aveva indicato la via termina in un buco, uno spazio vuoto tra due di questi cespugli di tubi rossi. Probabilmente il contadino deve aver, recentemente, estratto l'ortaggio, per poi portarlo in casa. C'è qualcosa di diverso adesso, qualcosa di nuovo che non c'era né nel bosco di inchiostro, né davanti alla casa sbilenca: il rumore. Lo sento dentro le orecchie, mi cammina nelle ossa, mi disturba anche se non so capirne la ragione. Sembrano quasi tamburi sotterranei, battiti continui, ma fuori tempo, provenienti da sotto l'orto. Mi disturbano perché non riescono ad andare all'unisono, ognuno va per conto suo, senza preoccuparsi di coordinarsi con gli altri. Un nuovo rumore mi permette di distrarmi da quegli assordanti tamburi: è il cigolio di una porta che si apre. D'istinto scavalco nuovamente la recinzione e mi accovaccio dal lato opposto al cancelletto di legno che dà accesso all'orto. Il contadino si avvicina e la prima cosa che mi salta agli occhi è la sua pelle: è bianca. Non pallida, non cadaverica, ma del colore e della consistenza di un foglio di carta. Sul suo volto emaciato, un naso adunco separa due occhi minuscoli e neri come l'inchiostro di cui sembravano essere dipinti gli alberi, mentre un mento appuntito, privo di alcuna peluria, si allunga sotto le sue labbra, bianche come la carta che fa da pelle al suo volto. I suoi capelli sono tirati indietro, spettinanti e, anch'essi, neri, come il petrolio che soffocava l'erba nel bosco. La sua statura è nella media, ma avanza un po' ingobbito, con le braccia esili piegate e le mani incrociate sul petto, sfiorandosi con dita affusolate ed ossute. Nel complesso appare denutrito, fino a sembrare scheletrico. Indossa un completo grigio che potrebbe essere di lana, la cui giacca appare strappata e consunta in più punti, sotto ad essa si intravede una camicia grigia: sembrano abiti eleganti, eppure vecchi, lisi, decadenti. La sua figura ha un che di lugubre e mi incute timore, ma non abbastanza da indurmi a fuggire. Il contadino dalla pelle di carta entra nell'orto, calpestando la terra secca con le sue scarpe eleganti, anch'esse usurate, e si ferma davanti ad uno degli strani ortaggi. Allunga il suo braccio sottile ed afferra i tubi del fluido vermiglio e, come se stesse estraendo una carota, dà un violento strappo alla pianta, sollevando ciò che i tubi celavano sotto il terreno. Riesco a vedere la pianta e, adesso, i tamburi che avevo udito nell'orto hanno un senso, un significato che mi attanaglia in una morsa gelida, una paralisi indescrivibile. I tubi altro non erano se non arterie e il liquido vermiglio era il sangue che pulsava al loro interno e nutriva ciò che il terreno nascondeva: un cuore rosso acceso che adesso pulsa davanti a me, grondante del suo sangue, strappato alle radici nel terreno, altre arterie palpitanti che lo legavano a quella terra. Il contadino lo contempla per un attimo e mi accorgo che il suo colore sta sbiadendo, come se, lentamente, stesse cominciando a morire. Persino il suo battito ha diminuito la propria intensità e sento una sconfinata tristezza inondarmi. Il contadino si volta e, tenendolo sempre per le arterie, trascina il cuore all'interno della casa, rinvigorendo di gocce fresche la scia che avevo seguito io.
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IL SAPORE DEL VUOTO e altri racconti
HorreurRaccolta di racconti brevi Metafore horror della società moderna. Racconto 1: IL SAPORE DEL VUOTO Racconto 2: LINFA MORTALE Con la collaborazione di @SenseitheLynx Disegno copertina da me realizzato ©2021 Tutti i diritti riservati