20. Un golem di neutrini

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Non appena tornato a casa, senza dire una parola ai miei genitori – che, a loro volta, non sembravano molto aperti al dialogo – mi chiusi in camera e mi lasciai cadere sul letto.

È finita, annunciai nella mia testa, col tono del discorso di Antonio sulla morte di Cesare. Quest'anno mi segano.

Una volta m'ero messo a leggere un libro sulla relatività, non so neanche perché. Anzi, lo so: non era niente di troppo serio, era uno di quei volumi che si comprano a pochi soldi col giornale, copertina di cartone con scritto a caratteri cubitali: "EINSTEIN". E nella vita di ogni uomo – o donna – che si rispetti arriva il momento in cui ci si sente affascinati da discipline complesse di cui non si capirà una mazza, come appunto la relatività o la fisica quantistica.

La capretta domestica del mio amico Stefano se la cavava meglio di me in matematica e fisica, e infatti io di quel libro su Einstein non avevo capito un'acca.

Mi ero sempre reso conto di come, almeno per quanto mi riguardava, le cose tornassero in mente in modo casuale e, a volte, del tutto sconnesso da ciò che si stava vivendo.

Per qualche motivo a me ignoto, mentre il mio corpo rimbalzava inerte spinto dalle molle del materasso, mi rividi mentre con aria da grande intellettuale leggevo il mio libro sulla relatività. La mia ignoranza mi aveva fatto saltare a piè pari ogni accenno a formule astruse allo stesso modo in cui si salta la staccionata di un campo dove si sono rubate le pannocchie. Però mi era piaciuto il capitolo sugli acceleratori di particelle.

Mi venne in mente che i neutrini non interagivano tra loro se non in casi davvero rari. Non si scontravano, non si influenzavano, non si legavano e non potevano stare assieme. Esistevano, separati l'uno dall'altro.

In quel momento mi parve che tutto ciò che avevo ottenuto, tutto ciò che avevo pensato, fosse costruito coi neutrini.

I miei due giorni di sospensione trascorsero con una velocità strana. I miei genitori ricominciarono a rivolgermi la parola la sera del primo, quando mi dissero cosa c'era per cena dopo aver calmato la nonna che – ricevuta la ferale notizia – li aveva costretti al telefono per una mezz'ora buona («Ma cosa è successo?» continuava a ripetere col suo accento che veniva da ben sotto al Po, e si batteva il petto come una prefica. «Ma come han fatto a sospendere il mio Sersì?»).

Dopo la parentesi sui neutrini, non facevo che chiedermi cosa avesse spinto Davide – no, cosa avesse spinto il mio amico Davide – a comportarsi in quella maniera. Non potevo nemmeno chiamare Anita, perché il mio telefono era stato sequestrato fino a quando non sarei tornato a scuola. In altre circostanze la cosa non mi avrebbe dato fastidio, dato che non ero sempre con le dita sulla tastiera come i nostri compagni messaggioni, ma in quel momento ne sentivo la mancanza, perché mi avrebbe aiutato a non pensare, o a sfogarmi.

Senza un modo per occupare il tempo, i miei occhi continuavano a cadere sul copione di Cirano, che se ne stava sulla scrivania assieme ai libri di scuola che aprivo di rado. Le parole che avevo scritto mi sembravano superficiali, poco interessanti e puerili. Le battute non mi facevano ridere, mi parevano quasi quelle di un ragazzino delle medie.

Fui tentato a più riprese di cestinarlo, ma ogni volta sentii un nodo stretto in gola e mi fermai.

Mantenni un funebre silenzio quella sera, a tavola, mentre la commedia se ne stava aggrappata al mio cervello come una cotta impossibile che non vuole saperne di sbollire. Mi vergognai come un ladro, e il «tegoline e fasioi» di mia madre, seguito dal brusco apparire nel piatto delle sopracitate vivande, mi suonò come un'accusa terribile.

Non saprei dire se fu per qualche risvolto della teoria della Relatività di cui sarei rimasto sempre all'oscuro, ma per qualche motivo quei due giorni di sospensione corsero come un treno, e dopo la sofferenza iniziale non mi restò che uno spiacevole disagio alla bocca dello stomaco.

Papà, voglio fare l'astronoma! - [NANOWRIMO 2020]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora