3. La notizia

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Il disegno era quasi al completo. Mancavano giusto dei ritocchi qua e là con dei colori accesi. Il soggetto era l'estate, anche se mi pentii subito dopo averlo scelto perché io odiavo l'estate. O meglio, odiavo il caldo. Tutto quel sudore, le maglie attillate, mi sapevano di sciapo.

La base del disegno era una spiaggia. In primo piano i piedi di un bagnante, e davanti a lui tutto ciò che poteva vedere. Avevo creato quel quadro per dare l'idea ai critici di cosa un uomo è costretto involontariamente ad assistere quando si trova in un luogo pubblico, come la spiaggia.

Erano passati solo cinque mesi da quando mi ero iscritta al concorso, e ciò era accaduto soltanto dopo tre mesi l'inizio della scuola.

La scuola era diventata così noiosa. La solita routine: lezioni, compiti, palestra. Frequentavo il corso di pallavolo istituito da un'amica di mia madre, Mary, una donna tenace e piena di energie in ogni momento della giornata. Non ero una cima negli allenamenti, ma mi impegnavo a diventarla, soprattutto con una squadra come la mia. Avevo legato presto con le mie compagne, tutte piene di vitalità, uscivamo spesso insieme, in più eravamo tutte accomunate dalla stessa passione: la pallavolo. Insomma, la mia vita sembrava stesse diventando fantastica. Quel pomeriggio avevo l'allenamento intensificante, ovvero quello riguardante la teoria messa in pratica, tutti i gesti tecnici, eccetera...

Gli allenamenti mi rilassavano sempre dopo una lunga giornata: anche se richiedevano fatica e sforzi, mi deconcentravano dalla pesantezza dei fatti avvenuti dalla mattina fino a quel momento.

Molte mie compagne non erano presenti all'allenamento. Motivo? Influenza. Una simpatica epidemia di scombussolamento intestinale si aggirava nel quartiere, che cosa sgradevole. Finito l'allenamento, il mio primo pensiero è stato il cellulare. Dopo essermi fatta una doccia rinfrescante ed essermi rivestita, ho afferrato il mio zainetto e ho preso il telefono dalla tasca laterale. C'era un messaggio della mamma.

"Sbrigati a tornare, io e papà vogliamo parlarti. Tranquilla, niente scuola."

Cos'era successo? Il fatto che mi avesse detto che la scuola non c'entrava mi metteva ansia. Cosa potevo aver fatto? L'idea di aver preso un brutto voto e che loro volessero parlarmi per quello sarebbe stata una soluzione più che risolutiva, una cosa banale che accade tra figli e genitori, sempre. Ma cos'altro poteva esserci? Non avevo di certo fatto sesso con nessuno, non mi ero ubriacata, non mi ero drogata, insomma, se ero una santa e lo sapevano, cosa volevano dirmi? Non mi restava che scoprirlo.

Durante il tragitto a casa stavo quasi per correre per gli ultimi 50 metri, sentivo l'ansia nelle gambe che mi tremavano, in gola come se avessi un boccone che non va giù. Quasi tutto sembrava avere un aspetto terrificante, davvero, l'idea che avessi fatto qualcosa al di fuori delle leggi sacrosante dei miei genitori mi terrorizzava.

La porta di casa scricchiolava spesso quando era aperta, ma ora mi metteva veramente ansia. Ansia. Provavo solo quello. Il mio cervello non filtrava altro se non ansia.

Papà era seduto sul divano a guardare la TV e la mamma stava finendo di preparare la cena. Non si vedeva affatto che si fossero preparati il discorso, ma sapevo che era così. La mamma si girò di scatto sorridendomi, papà rimase immobile. La mamma si poggiò delicatamente sulla spalliera del divano rosso vermiglio e mi invitò a poggiare lo zaino a terra e sedermi. Dopo un lungo respiro, diede fiato alle sue parole.

«Margareth, sai quanto noi teniamo a te e vogliamo che tu sia il più felice possibile, ma è sorto un problema negli ultimi giorni, del quale ti parliamo solo ora perché pensavamo fosse una cosa incerta.»

Questa cosa mi rendeva ancora più ansiosa di quel che già ero, avevo la mente offuscata.

«Di cosa si tratta?»

La mamma, quasi a malincuore, sfoderò le sue preziose abilità da maniaca della calma.

«Ricordi che tuo padre è originario di Anchorage?»

Eccome se lo ricordavo. Persa nei miei pensieri, riacquistai la lucidità e risposi con fermezza.

«Certo che lo ricordo.»

La mamma sembrava sollevata. Forse credeva di aver superato la prima prova di un quiz. Ora la aspettava la domanda da un milione di dollari.

«Beh, il caporeparto della sala operatoria sa molto bene che tuo padre ha sempre sostenuto a distanza l'ospedale di Anchorage con somme ingenti di denaro, dato che dopo essersi trasferito qui a Seattle prima che nascessi, non poteva più lavorarci e ha deciso di aiutare l'ospedale in questo modo.»

Non capivo. Dove voleva arrivare con ciò? Continuò.

«Ora però il suo capo vuole rispedirlo in Alaska perché è uno dei suoi migliori medici, e l'ospedale di Anchorage necessita ancora di lui.»

Continuavo a non intenderla.

«Insomma, qual è il dunque? Papà deve andare a lavorare in Alaska? Allora?»

Irrefrenabilmente, la mamma mi diede l'input giusto per capire di cosa stava parlando.

«Margareth vedi, il fatto non è di tuo padre, riguarda tutti noi. Il fatto è che... dobbiamo trasferirci.»

Il mio cuore si pietrificò in un istante. I miei occhi si svuotarono del loro colore. Se avessi potuto vedermi allo specchio in quel momento, mi sarei paragonata ad una strega, con occhi neri pieni di odio misto a dolore. Non potevo assolutamente crederci. Tutta la vita che avevo faticato a crearmi, le amicizie, la scuola, lo sport, stavano svanendo in un sol colpo. Dritto all'anima, come un pugnale dal quale non puoi sfuggire e sai che è diretto solo e soltanto ad un posto, il tuo cuore. Una sensazione orribile di ribollio mi invase lo stomaco, sentivo delle fitte percorrermi la schiena, i peli delle braccia si alzavano al passaggio dei brividi. Avrei voluto maledire i miei genitori, ma infondo che colpa ne avevano loro se mio padre era nato da una donna dell'Alaska? Sobbalzai dal divano e mi diressi in camera mia, piangendo fra le coperte in modo che nessuno potesse sentire le mie lacrime soffocate.

Il sole di mezzanotteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora