Di nuovo in ritardo. Ormai è diventata una tradizione, una specie di abitudine: latte, biscotti, caffè ed un pizzico di ritardo. E' un mio tratto distintivo quello di uscire sempre all' ultimo minuto ed iniziare a correre nel vano tentativo di arrivare, se non in orario, almeno ad un' ora accettabile.
Come ogni mattina da tre anni a questa parte mi affretto verso la fermata, impedita dal cappotto che continua ad aprirsi e dal cappello che non ne vuole proprio sapere di stare al suo posto. Do una sbirciata al telefono che tengo stretto in mano. Un minuto e l'autobus dovrebbe passare, sempre che ciò non sia già avvenuto. Gli orologi? Mai sopportati.
I secondi passano e la fermata è solo dietro quella curva. Ed è in quel momento che lo sento. Sarà che sono abituata e che ormai è come riconoscere il profumo della casa del vicino, o quello delle lenzuola appena lavate, fatto sta che non ho nemmeno bisogno di voltarmi a controllare. Inizio a correre mentre il caratteristico suono sforzato del motore diventa sempre forte. E' vicino, ma lo sono anch' io. La scarpa si slaccia, il cappello per poco non cade mentre il cappotto che ancora non avevo chiuso svolazza senza costrizioni nella fredda aria invernale. Se mi vedesse mia madre mi ucciderebbe. Con un passo che è a metà tra lo zoppicare di uno storpio e l' andamento saltellante di un canguro raggiungo la mia meta. Ed anche questa mattina ho vinto la mia piccola battaglia. Con il fiato corto aspetto il caratteristico sbuffo che precede l' apertura delle porte. Non devo attendere molto per salire, sono solo le sette e mezza e poca gente prende l' autobus a quell' ora nel mio quartiere.
Salgo sul mezzo semivuoto, mi siedo come al solito in fondo, su una di quelle sedie singole. Non voglio avere gente attorno di prima mattina, voglio solo il mio religioso silenzio e una bella dose di tranquillità.
Mi sistemo il cappello che è completamente fuori posto, abbottono il cappotto con cura e mi allaccio la scarpa destra che durante la mia piccola battaglia aveva deciso di ammutinarsi. Traditrice.
Dopo queste operazioni di servizio sospiro e mi accomodo meglio su quello scomodo sedile. Dovrebbero inventare qualcosa di decisamente più morbido e confortevole. Chiudo gli occhi abbandonandomi al silenzio. Chissà, magari stamattina mi va bene e riesco a schiacciare un pisolino. Il tempo tanto non mi manca. Il viaggio è lungo.Uno scossone dell' autobus mi fa sbattere la testa al vetro e non posso fare altro che svegliarmi. Ancora un po' stordita apro gli occhi cauta. La luce mi acceca ma dopo poco mi abituo. E' la prima giornata di sole dopo settimane, a Roma, ma io non sarò una di coloro che gioiranno di ciò; anzi. Meglio la pioggia, con il profumo di terra umida e la semioscurità. Decisamente meglio. Sbadiglio coprendomi la bocca e poi getto uno sguardo fuori dal finestrino. Panda, Ford Focus, Cinquecento grigia, una Vespa ed un vecchio camion malconcio. Stamattina c'è una grande varietà di mezzi in strada. Tra tutte quelle auto dai colori chiari e opachi o metallizzati e marcati spicca un pezzo di muro. Ce ne sono tanti di pezzi di muro per Roma, uno qua, uno là, un po' come capitano. Non ci faccio nemmeno tanto caso, così abituata a vedere lo stesso panorama ogni giorno. Quei muri però quella mattina hanno qualcosa di diverso. O forse sono io diversa. Il sonnellino potrebbe avermi resa molto più attiva e interessata. Il che non sarebbe affatto una cattiva cosa. E' assurdo pensare che quei muri, che in realtà sono acquedotti, sono lì da secoli. Insomma, stiamo parlando di costruzioni messe in piedi circa mille e cinquecento anni fa! E' una cosa che fa venire la pelle d'oca.
Mi stropiccio gli occhi e volto lo sguardo all' interno del mezzo, che intanto si è riempito di gente. Ci sono giovani, anziani, persone alte, basse, magre e ... c' è gente che non fa attività fisica da parecchio tempo.
Chi ha la pelle scura, chi chiara, chi è poggiato su due gambe, chi su tre e chi, ancora, su nessuna.
I posti ora sono quasi tutti occupati. In piedi, che si regge alla sbarra di metallo del mezzo, c' è un ragazzo africano che si intrattiene a parlare con un suo coetaneo con i capelli rasta in una lingua a me incomprensibile. Ridono e si scambiano battute. Chissà cosa si stanno dicendo ...
Continuo a guardare davanti a me senza fissare nulla in particolare, immaginando le battute che possono scambiarsi quei due ragazzi. Magari stanno parlando del campionato di calcio in Guinea, di come quel giocatore il giorno prima ha mancato un goal così clamoroso, o forse stanno parlando dell' Ebola, che sta mietendo tante vittime in Africa, o ancora della politica, di come in quel paese così povero tutti tentino di arricchirsi ai danni della popolazione che si impoverisce sempre di più, dei bambini e delle loro famiglie che muoiono di fame e di sete. Forse invece non stanno parlando di nulla di tutto questo, ma soltanto di come andrà quell' interrogazione a scuola, o quell' esame all' università ...
Potrebbero parlare di così tante cose ed io ho ancora tante idee, ma qualcuno mi disturba. Una mano rugosa bussa sulla mia spalla. Mi volto e mi sfilo le cuffiette della musica.
- E' libero questo posto?- chiede una signora molto anziana indicando il sedile davanti al mio. E' magrissima e la pelle che le ricopre le braccia sembra quasi traslucida. Ha l' aria tremolante tanto che ho quasi paura che mi si sgretoli sotto gli occhi.
-Certo!-
Mi affretto a spostare lo zaino dal sedile davanti e me lo poggio sulle gambe. La signora mi ringrazia e si siede. Nonostante l' età ha un guizzo di energia negli occhi. I suoi capelli sono bianchi e sembrano zucchero filato. Sono voluminosi e vaporosi e si scorgono appena un paio di orecchini dorati che si direbbero provenienti da un negozio d' antiquariato. I suoi occhi grigi incontrano i miei. Mi guarda un attimo e mi fa un sorriso che increspa le rughe del suo volto. Le sorrido di rimando e torno a guardare fuori. Tante volte mi sono soffermata ad immaginare come potrebbe essere stata mia nonna non avendola mai conosciuta, ma dopo aver visto questa vecchietta un' idea più chiara ce l' ho, perché la prima cosa che si penserebbe guardandola è: nonna. Tutto di lei fa pensare a una nonnina della porta accanto. Il maglione a quadri, il giaccone vecchio stampo, le mani nodose con tutti quegli anelli dall' aria antica, i suoi capelli bianchi, i suoi occhi allegri, il suo sorriso affettuoso. Insomma lei.
L' acquedotto scorre ancora alla nostra sinistra. Qualcosa di solido, tra tutti i pensieri e i castelli in aria che sto componendo questa mattina. L' autobus svolta sotto un arco e io mi sento per un attimo catapultata nell' antica Roma. Chissà come doveva sentirsi un imperatore, un tribuno ma anche un semplice plebeo nel passare lì sotto. Probabilmente si sarebbe sentito normale, come ci sentiamo noi oggi nell' andare in un centro commerciale. Probabilmente non sapeva che quel "muro" con il tempo sarebbe divenuto qualcosa di più.
-Scusami ... sai che ore sono?-
E' di nuovo l' anziana signora che esprime l' essere nonna da ogni poro della sua pelle.
-Sette e cinquanta- rispondo dopo aver guardato il telefono.
- Grazie cara ... quando vedo dei giovani penso sempre a mio nipote. E' in guerra sai? E' militare. Ora è in Afghanistan in missione. Sono sempre così preoccupata per lui ... - dice portandosi una mano al petto stringendo nel pugno tremolante la stoffa del cappotto. Con quel viso aggrottato e gli occhi tristi e preoccupati non sembra più tanto una nonnina amabile e felice, ma più che altro un' anziana signora che sta passando i suoi ultimi anni nel terrore di perdere i propri cari. La guardo un attimo e capisco che quella scintilla che mi era sembrata tanto strana per una donna della sua età è speranza, speranza di rimanere in vita abbastanza a lungo da vedere il ritorno di suo nipote. Speranza che quest' ultimo torni a casa, sano e salvo. Le sorrido non sapendo che dire. Non sono mai stata brava a parole, eppure la gente ha questa propensione a raccontarmi la propria vita. Ed è bello, perché mi ritengono qualcuno a cui dar fiducia ma anche perché è bello sentire le loro storie, anche se alcune non hanno il lieto fine. Il problema è che poi, finito il racconto non sai mai cosa dire. Si oscilla tra un "mi dispiace" ed un "è fantastico!" ... parole così vuote di significato. Per questo è meglio stare in silenzio ad ascoltare. Anche perché credo sia quello che spinge la gente a raccontare, non tanto un compatimento o una condivisione di gioia, ma più che altro il bisogno di essere ascoltati, perché magari non ci sono i figli, i fratelli, i cugini, i nipoti, gli amici, o perché ci sono ma non sono disposti a stare in silenzio ad ascoltare, perché ritengono per forza necessarie le parole, che invece spesso non servono.
Storie, storie di tutti. Guardo di nuovo la vecchietta al mio fianco che ora sta fissando tutto e niente. Il suo sguardo è perso, la mano ancora sul petto.
Storie, storie di tutti. Sarebbe bello conoscere la storia di ogni singola persona su quell' autobus.
Storie, storie di tutti. Storie di donne, uomini, bambini, giovani. Che siano tanti o pochi anni non fa differenza.
Storie di vita, di una giornata, di un momento, di un instante, di discorsi, di sguardi ma anche di una semplice frase come quel "ti amo" che ha cambiato la vita a quella ragazza che sorride al ragazzo al suo fianco con occhi sognanti, ma anche a quei due ragazzi più giù, il castano e il biondo, che si tengono per mano e si guardano come si guarda la persona senza la quale non si potrebbe vivere.
Poi c' è la storia di quella donna araba lì, con il velo, che muove avanti e indietro il passeggino dove c' è un bambino al quale sta cantando una ninna nanna nella sua lingua mentre il marito le appoggia una mano sulla spalla. Anche la loro vita è cambiata. Con un semplice "sì" o forse con qualcosa di più complicato.
Un' altro esempio potrebbe essere la storia di quell' uomo in giacca e cravatta che non fa che guardare l' orologio mentre nella mano tiene stretta la sua ventiquattrore.
O ancora di quell' anziano che è appena salito, che spintona un uomo di colore fermo davanti alla porta dicendogli che si deve levare dai piedi, che farebbe meglio a tornarsene al suo paese.
Storie, storie fatte di parole, di frasi non dette, di sospiri, di rimpianti, di desideri e di sogni. Storie che si stanno ancora scrivendo come quella di quei due ragazzi che si tengono per mano o di quella ragazza con il suo fidanzato che si sorridono. Storie che attendono una conclusione, come quella dell' anziana che ho di fronte o del vecchio scontroso che si è allontanato dall' uomo di colore rimasto basito lanciandogli insulti. Storie che ancora attendono di essere scritte, come quella del bambino nel passeggino della donna araba.
Ognuno ha una storia. Ad esempio quella donna, vestita in maniera un po' estrosa, che sfoglia il suo libro avida con gli occhi che scattano in maniera quasi febbrile. Potrebbe essere una scrittrice, o almeno io la immagino tale. Ma c' è anche l' uomo con la ventiquattrore che magari tutti immaginerebbero impiegato in ufficio ma in realtà la sua è solo una parte, una maschera, perché è un attore di teatro. Storie, tante storie si potrebbero inventare. Storie da scrivere o da raccontare, ma anche storie da ascoltare. E io mi sento spettatrice, mi sento immobile sul mio sedile mentre intorno a me si affollano così tante persone, identità, storie e realtà. E dire che non avevo mai pensato nemmeno a questo, così come al muro ... neanche a lui avevo dato più di tanto importanza. Eppure anche l' acquedotto ha una sua storia, come tutti gli oggetti, come tutte le cose. Roma è storia.
Oggi mi sto sentendo un po' filosofa. Fuori dal finestrino l' acquedotto si è interrotto. Ma nessuno se ne è accorto, nè quella ragazza che sorride allo schermo del suo telefono, nè quella donna che impreca a bassa voce perché in ritardo, né il falso impiegato d' ufficio che continua a guardare il suo orologio, né i due giovani innamorati, né i due ragazzi africani che continuano a ridere e nemmeno la scrittrice, troppo intenta a leggere. Nessuno sembra accorgersi di quello che succede fuori da questo autobus. Forse non gli interessa o forse non ci fanno nemmeno caso. Come incolparli, anche io ho sempre fatto così. L' autobus apre le sue porte. È la mia fermata. Mi alzo, saluto l' anziana donna che dopo essersi riscossa dal suo stato di trans mi sorride e scendo. Lancio un' ultima occhiata a tutte le persone all' interno del mezzo. Non si sono accorti che qualcuno è sceso, o forse non si sono proprio mai accorti della mia presenza, forse nemmeno sapevano che quel sedile prima era occupato. Le porte si chiudono mentre io continuo a guardare dentro. L' anziana donna mi saluta ancora con la mano e io le sorrido sincera mentre ricambio il cenno.
L' autobus parte. I miei occhi non incrociano più altri sguardi oltre quello dell' anziana signora.
Con ancora il sorriso sulle labbra mi volto e inizio a camminare mentre avvolgo le cuffiette per la musica e le ripongo nella tasca del cappotto. Non ho mai fatto una cosa del genere. Ma oggi è un giorno diverso e anche io sono diversa. Mi ritrovo addirittura a sorridere di prima mattina!
Oggi niente musica, ci sono così tante cose da ascoltare, da vedere, da vivere. Direi che le cuffiette non servono, non c' è bisogno di un cantante che racconti storie prese a caso. Ce ne sono così tante vere qui ... storie di piccole vite che si articolano in una storia immortale, quella di Roma. Storia nella storia. Vita nella vita. E poi ci sono io, con la mia storia ancora in via di scrittura. Come andrà a finire? E' difficile dirlo.Spazio all'autrice
Mie cari lettori, non so se qualcuno leggerà mai questo mio scritto. E' stata una cosa nata così, da un viaggio, il mio viaggio giornaliero. La mattina in cui ho vissuto quest' esperienza non aveva nulla di particolare, ma mi ha aperto gli occhi. Ho visto qualcosa di più, ho guardato oltre. Queste parole sono nate da sole, quasi come un bisogno necessario di dire, di parlare e di esprimere quello che ho sentito, di rendere partecipe qualcuno di ciò, per far riflettere su noi stessi e sugli altri. Per fermarsi un attimo e dire: "Forse non è tutto come sembra", per spezzare anche il filo di quell' apatismo che vedo riflesso negli occhi di tanti miei coetanei e non. Ad ogni modo, se qualcuno vorrà spendere qualche minuto per leggere queste parole di una ragazza più o meno delirante ne sarò lieta.
Con affetto
Liv
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Storie e realtà nella Città Eterna
General FictionLa vita è qualcosa che certe volte può sembrare monotona, lenta e noiosa. Ma in realtà è solo questione di punti di vista. Spesso si è così chiusi nel proprio piccolo mondo da non riuscire a vedere oltre la propria sfera privata, oltre la propria pi...