Capitolo 2.

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La luce entrava preponete dalle finestre, le grosse tende ricadevano ordinate ai lati. Mi passai una mano sugli occhi, cercando di svegliarmi. Girandomi verso sinistra, il letto non mi parve più così soffice. Lui dormiva, come un bambino. I riccioli castani gli ricadevano sulla fronte. La bocca leggermente schiusa. Cosa avevo fatto? Trattenendo il respiro, lasciai scivolare via il lenzuolo. Rabbrividii al contatto con il pavimento freddo. Veloce, raccattai le mie cose e uscii, lasciandomi alle spalle il palazzo storico. Era una bella giornata, il sole splendeva alto riscaldando le strade. Varie persone passeggiavano insieme, accompagnate dal suono di campane. Mi incamminai verso via Cavour per infilarmi nel primo bar sulla destra. Avevo un disperato bisogno di caffè.

"Un cappuccino, grazie" ordinai al bancone.

Sospirando, mi sedetti da un tavolino all'aperto con la tazza in mano. Cosa avevo fatto? La prima volta avevo colto l'attimo, ma la terza ormai iniziava ad essere un po' troppo lungo come momento. Carpe Diem era una filosofia di vita pericolosa da adottare, troppo facile ignorarne le conseguenze. Gregorio Benevento era uno che viveva solo il presente, non pensava al passato e non si preoccupava del futuro. Non ne aveva bisogno. Io invece rimuginavo troppo, pensavo troppo, sentivo troppo. Lui troppo poco. Era questo che mi aveva attratta fin dall'inizio. La sua nonchalance, il suo essere al centro del proprio mondo. Con lui ti sentivi sulla vetta più alta dell'universo, sulla barca più grande, sull'onda più maestosa, sotto il sole più splendente. Senza di lui invece... pensavo troppo. Guardai il telefono, erano le undici. Non mi aspettavo un suo messaggio, ma non potevo evitare di starci male. Non eravamo niente, eppure per me eravamo tutto. Era stata la mia prima volta, e poi la seconda. Ora anche la terza. Mi tirai dei colpetti sulla fronte, dicendo: "Stupida! Stupida, Stupida!". Lasciai il tavolino, decisa a tornare a casa e levarmi il suo odore dal mio corpo. Mi sentivo gli occhi di tutti addosso, come se sapessero. Mi giudicavano con sguardi severi. Accelerai il passo passando davanti a casa sua, ora non volevo pensarci, era una bella giornata e dovevo andare in campagna a studiare. Raggiunsi il portone in legno scuro di casa mia. Si aprì senza che io infilassi la chiave. Salutai i vicini che uscivano, miei parenti alla lontana. Passai il secondo portone e salii le scale fino al primo piano, casa mia. Una volta dentro, mi fiondai subito sotto la doccia. Cercai di lavarmi via la notte dal mio corpo. Era cambiato negli ultimi mesi, ma non ancora abbastanza. Non lo sarebbe stato mai purtroppo. Soffrivo anch'io della condizione umana del non accontentarsi mai, come tutti d'altronde. In accappatoio, mi appoggiai al davanzale della finestra del mio bagno. Dava su un cortiletto interno in cui ogni tanto cantavano gli uccellini. Accesi la mia Iqos. Avevo preso il vizio da Greg. Me lo immaginai, fumarsi la sua dopo aver fatto sesso con me. Un'espressione indecifrabile sul volto, il torso abbronzato lasciato scoperto dalle lenzuola bianche. Io da una parte del letto e lui da quella opposta. Chiusi gli occhi, scuotendo la testa. Non dovevo pensare. Presi un borsone e iniziai a riempirlo con l'essenziale. Mi sarei trasferita in campagna qualche giorno per studiare, avevo gli esami a breve. Una volta finito di prepararmi, caricai l'ascensore e chiusi casa. I miei genitori mi aspettavano in macchina, il motore ancora acceso.

"Ciao mamma, papà!" li salutai abbracciandoli, era la prima volta che li vedevo in due mesi.

Mio padre caricò i miei bagagli nel baule, per poi sedersi la posto di guida, mia madre di fianco a lui. Mi accomodai dietro e la macchina partì, le viette del centro storico passavano dietro ai vetri scuri. Mi era sempre piaciuto osservare fuori dai finestrini, che siano di un'automobile, di un treno, di un aereo. Osservavo gli sconosciuti camminare verso i loro impegni, incuriosita dalla loro quotidianità. Mi ricordava di come tutto fosse relativo, di quanto piccoli fossero i miei problemi. La vita andava avanti in ogni caso, senza mai fermarsi. Mi rilassai sul sedile in pelle fino ad addormentarmi, ero esausta. Sentii la machina fermarsi dopo una ventina di minuti. Aprii gli occhi, osservando il prato verde attorno alla maestosa casa in mattoni. Era una proprietà di famiglia, da parte di mio padre. Si trovava poco fuori il paese, in una strada di ville dove ci conoscevamo tutti. Scesi dalla macchina e Aretha mi accolse scodinzolando felice. Era il cane di mia zia, anche se reputavo come mio, una bellissima Golden Retriever.

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