VIII

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La mia mente adesso è arrivata al momento in cui io, sorridente come non mai, accompagnato dalla figura grigia, passeggio in direzione di casa mia, dopo la disastrosa esibizione. Io ho suonato benissimo, ma il pubblico semplicemente è scomparso, come se io non fossi più utile. Apro la porta di casa, immediatamente una luce accecante mi investe. Inizia a sbucare gente da tutte le parti, tutte persone che mi creano una certa irritazione. Sorrido. Non dico nulla. Entro nella mia camera, la mia prigione. Fuori dalla porta sento uno schiamazzo incredibile, una festa. Inizia a fare freddo. Elegante e sorridente mi guardo allo specchio. Vedo il riflesso del pianoforte alle mie spalle. Lo sgabello. Gli specchi sulle altre pareti creano un effetto che mi piace particolarmente. Quello dell'infinito. Un infinito falso, una copia. Un sostituto dell'infinito, non potrà mai somigliare al vero infinito. Troppo perfetto, troppo caotico. Non riesco a sopportare questa finzione, questa mancanza di completezza, è una situazione insostenibile. Afferro lo sgabello. Un regalo di compleanno, non ricordo da parte di chi. Odio chi mi ha regalato questo sgabello. Che regalo stupido. Non mi serve. Non lo voglio più vedere. Lo scaglio contro lo specchio. Una voragine si apre davanti a me. Il pavimento inizia a brillare. Schegge di vetro iniziano a riflettere la poca luce proveniente dalla fessura sotto la porta. Lo schiamazzo della festa per un attimo si interrompe, poi ricomincia più assordante di prima, con un leggero mormorio in sottofondo. Osservo il pavimento. Le schegge per terra riflettono la mia immagine a pezzi. Ora il riflesso è corretto. La figura grigia alle mie spalle si inginocchia, prende una scheggia e me la porge. Ho capito. Afferro la scheggia. Un piccolo pezzo di infinito. La scheggia è fredda. Immediatamente il freddo pervade tutto il mio corpo, partendo dal polso. Sono tesissimo, eppure ciò mi rilassa incredibilmente. Prendo lo sgabello. Ho ancora la scheggia in mano, sporca della mia esibizione fallita. Lo sgabello è pieno di schegge piccolissime, quasi piacevoli al tatto, come la sabbia d'inverno. Fredda. Posiziono lo sgabello. Mi siedo. Vorrei suonare, ma il mio pianoforte ha un suono diverso, sbagliato. Il suono di un organo. I tasti sono pieni si schegge, ma la curiosità e la leggerezza del momento mi spingono a continuare a suonare. Il mormorio in sottofondo ora si intensifica. Riesco a distinguere la voce di un uomo. Monotòna. La figura grigia mi indica la porta. Smetto di suonare. Non vorrei alzarmi dallo sgabello, non credo di averne la forza. Nessuno ha più bisogno di me. Nessuno ha più bisogno della musica. Quell'infinito falso non può sostituire la vera infinità della mia arte. Mi alzo dallo sgabello, sento la testa girare. Tutto inizia a farsi più reale. Inizio a perdere la concezione di ciò che mi circonda. Il mio pianoforte viene inghiottito dalla figura grigia, insieme allo sgabello. Mi rimane solo la scheggia con la mia immagine. Poi, la figura grigia divora anche la mia immagine dalla scheggia, portandola in quella posizione così comoda ma allo stesso tempo così tanto evidente. Appoggio l'orecchio alla porta. Sento qualcuno piangere. Il vocio della festa inizia a scemare. La figura grigia ha inghiottito tutta la mia stanza, rimaniamo solo io e la mia porta. Inizio ad essere davvero stanco, ma al contempo incredibilmente leggero. Cado con un tonfo per terra. La festa si interrompe. Ora sento solo un assordante schiamazzo tipico di un funerale. Il mio. Sento qualcuno avvicinarsi alla porta, ma poco prima che questa venga aperta la figura grigia la divora insieme a ciò che resta di me. Nessuno ha più bisogno dell'arte.

L'esibizioneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora