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Trentotto giorni prima mi svegliai in quella bianca e apatica stanza d'ospedale.

Era un afoso pomeriggio di una domenica come tante, ma forse era un po' più speciale di quanto si potesse immaginare, perché ero ormai a casa da sei ore.

Tutto ciò che sapevo era che mi chiamavo Jennifer e che nel giro di tre mesi avrei compiuto 18 anni, abitavo in California ed ero abbastanza ricca. Ero finita in coma 4 mesi prima perché mi trovavo nel posto sbagliato al momento sbagliato: dovevo solo attraversare la strada, e sarei riuscita ad arrivare dall'altra parte se non fosse stato per un ubriaco che decise di passare di lì a 140 km/h senza vedermi. Ovviamente quando me ne accorsi era troppo tardi e sentivo ormai troppo dolore per fare qualunque cosa; per me era come se fossero passati nemmeno 10 minuti, mentre per tutti io avevo lottato 90 giorni. Ovviamente non mi ricordavo dove stavo andando, avevo molti vuoti di memoria, ma i medici avevano detto che era solo una cosa momentanea. "Ti sei ripresa bene, sei stata molto fortunata", mi dicevano tutti; io non mi ritenevo per niente fortunata, dopotutto ero stata in coma.

Strinsi con le mani il mio morbido piumone bianco che mamma aveva lavato mentre "ero via" e girai la testa sul cuscino. Automaticamente mi ritrovai con lo sguardo sul mio iPhone poggiato sul comodino, così lo presi e lo accesi curiosa di cosa ci avrei trovato dopo 4 mesi; arrivarono decine di messaggi di amici e parenti, tutti preoccupati e in ansia, dispiaciuti e ingenui perché non avrei mai potuto leggere quelle parole se non una volta che fosse tutto finito. Mi colpirono però una ventina di messaggi scritti da una sola persona: Stephan, il mio migliore amico. Aveva continuato a scrivermi come se niente fosse per tutto quel tempo, come se fosse tutto uno scherzo. Decisi di chiamarlo, ero davvero decisa a sentirlo.

-Pronto?-
-Parlo col signor Scott?-
-JENN! ODDIO JENN SEI TU?-
-No, sono il suo fantasma, perdonami se ti ho disturbato.-
-Sei tornata! Cazzo amica mi hai fatto prendere un colpo, sai che dovrai pagarla vero?-

Sorrisi. Non era cambiato niente, era come se ci fossimo visti appena il giorno prima. Continuammo a chiacchierare per un paio d'ore e capii che non potevo più stare sola, il giorno dopo sarei tornata a scuola.

La sveglia suonò e so che non avrei mai più apprezzato quel risveglio per il resto della mia vita. Mi buttai giù dal letto: non vedevo l'ora di ricominciare. Indossai una maglietta bianca, i miei jeans preferiti e le Vans verdi nuove che mia mamma mi aveva fatto trovare sul letto come regalo il giorno prima. Mi guardai allo specchio e notai che i miei capelli, ribelli come sempre, si erano allungati. Mi sciacquai la faccia e mi lavai i denti, poi mi feci guidare dall'odore di waffle che aveva invaso la casa fino ad arrivare alla cucina, dove trovai Dorota intenta a guarnire di gelato alla panna la mia cialda, e mio fratello sorridente come sempre.
-Pronto a ricominciare?- mi chiese allegro.
-Oh, non vedo l'ora!- ero stranamente entusiasta.
-Ti prego, dammi un po' di voglia di andare a scuola e giuro che...-
-Che? Ahahah non mi prendi in giro caro-
Il suo telefono si illuminò.
-Contratteremo più tardi, io devo andare! Ciao sorellina, ciao Dorota!- salutò masticando distrattamente il suo waffle e osservando lo schermo del cellulare. Lasciò un scia di piacevole profumo che non riuscivo ad identificare, probabilmente solo la sua boccetta costava più di 100 dollari. Finii la mia colazione e salutai Dorota sorridendo: ormai faceva parte della famiglia.

Mondo, a noi due.

SixteenWhere stories live. Discover now