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Erano passati solo pochi minuti da quando gli inservienti mi avevano portato il pasto. O meglio, la flebo, quell'odioso serpente di plastica, insidioso e muto, il quale provvedeva a mantenermi in vita. Non che lo volessi davvero. La mia preghiera silenziosa, da quando ero stata rinchiusa in quella gelida e maleodorante gabbia, era sempre stata la stessa. Non ero mai stata nel Prima una persona religiosa, ma in quel momento speravo in qualcuno, o in qualcosa al dì sopra di me che mi notasse. Volevo che quel qualcosa vedesse le sofferenze che mi venivano inflitte a forza giornalmente. Volevo qualcosa in grado di porre fine alle mie sofferenze. Al momento, ancora non era capitato nulla. La mia testa doleva, faceva sempre male. Stare sdraiata per terra e stare seduta, appoggiata a quei freddi pezzi di metallo non rendeva la mia condizione inumana vagamente migliore. Alzai lo sguardo. Non sapevo quanto lontane fossero le gabbie delle mie simili. Qualche metro forse, non sapevo dirlo con esattezza. Quelle simili che una volta, come me, erano state donne. Ora erano ( siamo ) diventate merce, delle provviste, degli esseri senza volontà utili a quel sistema malato che il nostro maledetto paese aveva adottato.
Se chiudevo gli occhi, potevo ancora percepire il Prima. Il profumo di pancake appena preparati, il cinguettio insistente degli uccellini fuori dalla finestra della nostra camera, la vista di Thom, girato di spalle e intento a preparare i suoi strabilianti pancake. E poi ancora immaginavo le lunghe docce calde, il profumo di vaniglia del mio shampoo, il corpo insaponato di Thom che mi avvolgeva e mi sussurrava parole dolci all'orecchio. Parole che si tramutavano in lievi baci, poi in baci appassionati e avvolgenti, fino a renderci un unico corpo. Le lacrime stavano già iniziando a scendere copiose sulle mie guance sporche di polvere e terra. La pulizia non era mai stata la priorità dell'Allevamento. Strano, avrebbero potuto impegnarsi un pò di più, dato che grazie a me e alle altre stavano per avere dei neonati puri, incontaminati dal mondo del Prima. Che ingrati. Ritornai a vagare con la mente al Prima, all'allarme, alla psicosi generale, alle grida delle persone travolte dalla furia animale. La "Rivolta Animale", così come era stata definita dalle reti locali, si era estesa a tutti gli animali. Dilagata come una piaga, non risparmiò neanche un angolo di mondo. Gli animali inferociti, impazziti, vogliosi di libertà, dominavano le piazze, imperversavano nelle strade, schiacciando e travolgendo tutto ciò che si trovavano innanzi. dalle auto alle persone. Suini furiosi, cani e gatti impazziti che si rivoltavano nelle loro amorevoli case, bovini che, con la loro immensa molte, investivano senza pietà i passanti indifesi, li aggredivano. Nello scenario più folle che avessi mai potuto immaginare, il suono dei morsi risuonava nella mia via, fiumi di sangue si univano ai rivoli d'acqua ai lati della strada, arti amputati e brandelli di pelle tappezzavano l'asfalto. Non avrei mai dimenticato quelle scene orripilanti. Quei pochi in strada che erano riusciti a sopravvivere, si trascinavano a forza verso i portoni delle case più vicine, gridando come impazziti e battendo colpi sul legno massiccio. Chiedevano aiuto con la voce sotto shock, chiedevano un aiuto che mai sarebbe arrivato. Io e Thom ancora non sapevamo nulla, impauriti, restammo chiusi nell'armadio ad aspettare che l'inferno finisse. E finì, per quel momento. Gli echi dei malcapitati che chiedevano asilo, diventati ormai flebili, vennero rimpiazzati da colpi di armi da fuoco. L'esercito non ci mise molto ad eliminare tutto quello che gli si parava davanti. Animali e persone. Io e Thom rimanemmo in quell'armadio buio per ore, la sua area ristretta e soffocante si era trasformata in una tana, un rifugio improvvisato dal mondo esterno. Da quella casa non uscimmo più come persone libere, ma come schiavi.
Che cosa successe quel giorno non fù mai chiaro a nessuno. Ci furono diverse speculazioni, virologi che impazzivano con le loro teorie di virus mutati, complottisti che incolpavano i governi, esperimenti mal riusciti, complotti terroristici. Alcune persone ancora parlarono di karma e punizione divine, altri parlarono di un'attacco alieno. Non arrivai mai a sapere la verità. Trascorremmo diverse settimane chiusi in casa per ordine del governo, settimane in cui restammo ignoranti, ignari del nostro destino, che era già stato deciso. Mi prelevarono prima che potessi vederci chiaro sulla faccenda, prima di aver potuto capire qualcosa su questa apocalisse. Ricordai le grida disperate di Thom, quando i militari entrarono e mi trascinarono fuori dal letto, nuda, vulnerabile. Ricordai le mie urla, il dolore nel cercare di trattenermi allo stipite della porta, le mie dita scorticate e insanguinate. Urlai a Thom di non reagire, cosa che ovviamente lui fece. Non mi ascoltava mai, non mi aveva mai dato retta, ma questa volta la pagò cara. Uno dei soldati puntò la pistola contro Thom. Sentì lo sparo. Il sangue schizzò sulla testata del nostro letto, assieme a pezzi di cervello e brandelli di pelle. Lasciai andare un grido. Ma era un grido muto. Poi il nulla.
Rinvenni in una gabbia, la stessa in cui mi trovavo ora, la mia nuova dimora. Casa dolce casa. Una volta ero una donna felice e appagata, ora la gabbia, le flebo, il grasso, la mia pancia che si ingigantiva sempre di più. La mia pancia turgida mi ricordava quanto mi sarebbe piaciuto avere un figlio con Thom. Sarebbe stato sicuramente la luce dei nostri occhi, nessuno dei due aveva mai avuto una famiglia degna di tale nome. Ora mio marito probabilmente era già stato macellato, tagliato in pezzi e servito ai piani alti, a coloro che "contavano" davvero a questo mondo. Non so quanti anni siano passati, nell'Allevamento tutto sembrava sempre uguale.
Tranne noi.
Le persone, la Merce, la Scorta.
Eravamo sempre più spenti, tirati, sciupati, i volti scheletrici riflettevano il fantasma di coloro che eravamo stati nel Prima. Persone ordinarie, per essere finite qua dentro. Non mi sono mai arrivate informazioni dal Fuori, non arrivano informazioni alla merce, ma arrivai a pensare che tutte le persone inutili, persone anche per bene ma senza un ruolo di spicco, siano finite all'Allevamento. D'altronde, ingabbiare esseri umani, costringerli a riprodursi e infine macellarli era la scelta alimentare più logica che si potesse fare. Troppo difficile trovare alternative. Agli inizi ci misi molto tempo a prendere coscienza di me, quando lo feci mi ritrovai già gravida. Pronta per partorire della giovane, tenera, carne. Il mio primo parto fù doloroso, niente anestesia, niente nomi. Svenni e ripresi coscienza più volte, un martirio. La sofferenza che provai quando portarono via la mia creatura fù indescrivibile. Mi dimenai, urlai, scalciai talmente forte che dovettero legarmi con delle luride catene al lettino. Continuai a lottare, le catene stridevano, e così faceva il mio cuore lacerato dal dolore. Non seppi mai che fine fece, e forse era meglio così. Un'idea, dopo anni di allevamento, me l'ero fatta. Sarebbe stato meglio non sapere nulla. Ciò che potevo immaginare superava il limite di orrore al quale la mia mente potesse essere esposta. Dopo il parto, venni gettata di nuovo nella gabbia e gli inservienti mi attaccarono subito al seno un macchinario. Compresi con orrore che si erano serviti della mia gravidanza per prosciugarmi del mio latte. Piansi, ma non potei fare nulla. Non sapevo da quanto tempo la macchina fosse attaccata a me, sapevo solo che quella routine si riproponeva ogni giorno, e ogni giorno era sempre più doloroso. Il procedimento si ripeteva di continuo, fino a che non rimase nulla da estrarre. Ero stanca, stremata, mi sentivo violata da tutto e da tutti. Un giorno raccolsi tutte le mie forze e abbandonai la mia posizione accucciata per issarmi sulle sbarre della gabbia. Quando alzai lo sguardo vidi, nella gabbia di fronte a me, un'altra femmina che aveva avuto il mio stesso istinto. La ribattezzai N. Il suo sguardo era spento, vitreo, faceva supporre che, se solo avesse potuto e avesse avuto i mezzi, avrebbe trovato un modo per porre fine alle sue sofferenze. Probabilmente ai suoi occhi io le riflettevo le stesse sensazioni. Da allora venni ingravidata una seconda volta, poi una terza. Questa era la mia quarta gestazione.
- "SVEGLIA !".
Un urlo a ridosso della mia gabbia mi fece scuotere dal mio torpore, dal turbinio di pensieri che mi aveva inghiottita.
- "Che ti avevo detto Nick. Questa è roba buona, senza il pezzo migliore dell'allevamento. Sai, i suoi prodotti precedenti erano tutti di ottima qualità, sono sicuro che non rimarrai deluso".
La sua voce, arrogante e roca, mi provocava disprezzo e disgusto. Iniziai ad odiare Pike sin dal primo momento in cui posò le sue mani tozze e sporche su di me. Rozzo, violento, senza un briciolo di cuore. D'altronde chi altro si sarebbe potuto occupare di gestire una simile mattanza?
Il suo interlocutore, un uomo alto e scheletrico, mi squadrava con occhi voraci, come se al mio posto non vedesse me, Leah, ma vedesse solo i soldi che potevo fargli procurare. Osservai disgustata le sue mani curate da persona nullafacente. Era uno di quelli che maneggiavano soldi e facevano fare il lavoro sporco agli altri, senza dubbio.
-"Beh, che dire, Pike. Penso sia perfetta. È impressionante, non posso fare altro che accettare la tua offerta".
Il mio cuore saltò dei battiti. Stavano trattando della mia vita, davanti a me, come se non capissi, come se fossi solo un pezzo di carne inanimato. Mi veniva da vomitare. Non feci in tempo a concretizzare quello che era il turbinio nella mia pancia che Pike aprì la gabbia e mi trascinò fuori. Non opposi resistenza, non ne avevo le forze. Arrivarono due inservienti a caricarmi su un carrello di metallo. Mentre mi trasportavano non so dove incrociai ( per l'ultima volta ) lo sguardo di N. Piangeva. Ero convinta che, a modo suo, mi stesse dicendo addio.
Avevano in serbo qualcosa per me, qualcosa di brutto.
Le mie lacrime scendevano impotenti, la paura si era trasformata in urina che sentivo scivolare calda prima sulle mie cosce e poi sulla superficie di metallo, la mia mente non riusciva a comprendere la situazione. La testa mi doleva, dove stavo andando?
I miei occhi semiaperti registrarono la lunga fila di gabbie, in ognuna di esse una femmina gravida. Mi guardavano ansiose, gli occhi gonfi dalla stanchezza e dalle lacrime. In altre gabbie le femmine avevano attaccato quell'infernale macchinario al seno, i loro sguardi erano sconsolati. Morti. Passammo la fila di gabbie e uscimmo in un lungo corridoio scuro. Dalle pareti crepate si potevano vedere macchi di umidità e rivoli di acqua scendere lentamente, come se fossero un orologio naturale che andava a scandire il tempo in quell'inferno. Ai lati di questo corridoio si apriva una porta con dei grandi teli di plastica spessa sporchi di sangue, che andavano a coprire la stanza. Dalle urla, quello doveva essere il mattatoio. Le grida disperate di persone che non volevano morire mi penetravano nelle ossa. Urla agghiaccianti, piene di orrore, paura, rassegnazione. Sentii distintamente il pianto disperato di quello che doveva essere un bambino, poi un colpo. Il bambino aveva smesso di piangere.
Superammo quella porta infernale e procedemmo lungo il corridoio, i cigolii del carrello metallico rimbombavano nella mia mente annebbiata. Finalmente raggiungemmo la fine. Alzai lo sguardo e vidi una porta arrugginita, dalla quale filtrava la luce. Quella cara e calda luce che mi sfiorava la pelle durante gli anni della mia giovinezza e che mi era stata negata negli anni della mia maturità. Gli inservienti aprirono la porta. Una folata di vento mi accarezzo la pelle nuda, la brezza mattutina mi solleticò il naso, il profumo di erba sostituì gli odori pungenti di urina e sangue. Non ero libera, ma per la prima volta dopo anni sentivo sulla mia pelle quella che era una parvenza di libertà. Conscia della fugacità del momento, cercai di assaporare il più possibile gli odori, il soffio del vento, le sensazioni che esso mi provocava. Accolsi l'aria fresca che andava scaldandosi, preannunciando una giornata piuttosto afosa. Lascia che i miei sensi accogliessero le meraviglie della natura, per l'ultima volta. Il cigolio del carrello si interruppe. Iniziammo a salire su una rampa dismessa, cigolante tanto quanto il mezzo sul quale ero stata gettata. Gli inservienti mi alzarono a forza e mi lasciarono cadere su un appiccicoso e maleodorante pavimento, poi scesero, chiusero un pesante portone e, assieme ad esso, chiusero per sempre il mio sguardo sul mondo esterno. Cercai di capire dove fossi finita, le pareti che mi circondavano erano quattro, rovinate, graffiate. Un camion!. Ero talmente concentrata a percepire la natura coi miei sensi che non mi ero neanche accorta di essere stata chiusa dentro in un camion. Nella mia testa si fece largo un pensiero, raggelante, reale. Mi stavano trasferendo. Avevo passato abbastanza tempo all'interno dell'Allevamento da aver capito che qualcosa bolliva in pentola. Avevano un piano. Un piano di cui non sapevo nulla, ma del quale facevo parte.
Non sarebbe andata così. Avevano preso tutto da me, tutto quello che avevo e anche tutto quello che non avevo. Non gli avrei più permesso di usarmi, di farmi del male. Ogni persona deve avere un limite di sopportazione, io avevo raggiunto il mio. Doveva finire, non gli avrei permesso di rubare altro dalla mia vita. Dovevo trovare una soluzione, e in fretta. Vagai con lo sguardo sulle pareti rovinate, guardai per terra, il pavimento chiazzato di urina e altri fluidi corporei. Le vibrazioni del camion mi ricordavano lo scorrere del tempo. Non avevo più tempo. Non potevo arrivare a destinazione. Mentre gattonavo in quello spazio angusto e vibrante, all'improvviso lo vidi. Piansi, di gioia, di paura. Qualcuno o qualcosa finalmente aveva dato ascolto alle mie preghiere. Quel pezzo di vetro smerigliato, nascosto in un angolo, era rimasto incollato sul pavimento a causa dell'urina. Era così reale, così affilato. La mia salvezza, la mia via di uscita. Lo presi e lo strinsi saldamente tra le mani. Il sangue iniziò a scorrere caldo sulle mie dita, sugli avambracci, ma non mi importava. Non mi importava più di nulla ormai. L'unica cosa che aveva un senso era la creatura che racchiudevo nel mio grembo e mai le avrei permesso di vivere una vita di sofferenze come la mia. Ripensai al prima, a Thom, al mio desiderio di avere figli e ai figli che effettivamente avevo avuto, che mi erano stati portati via, che erano diventati cibo. Pensai alla natura. Come può uno scenario così bello ospitare una specie tanto crudele? Penso che a questo quesito, non avrò mai una risposta. La mia mano, salda sul vetro, passo sul collo, dapprima con delicatezza, poi aumentai la pressione fino ad infilare totalmente l'arnese dentro di me. Sentii un forte dolore, poi più nulla. L'unica cosa di cui ero certa era che in quel momento stavo sorridendo.
Ero finalmente felice.

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