SULLA MIA PELLE

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Faceva caldo. Troppo caldo. Il mio corpo poggiava contro la parete incandescente del camion sul quale gli inservienti ci avevano fatto salire. Ormai dovevano essere passate delle ore. Non sapevo dire se era un bene o un male essere finito in quel punto del camion, ma di certo i maschi finiti al centro non se la passavano meglio. a ogni curva, frenata o dosso i maschi venivano sballottati e, senza appigli ai quali aggrapparsi, finivano per cadere gli uni sugli altri. Alcuni, i più deboli, crollavano sul pavimento e venivano calpestati dai maschi più forti. Quelli a terra non si rialzavano più. Ad ogni sballottamento la mia pelle sudata sbatteva violentemente contro la parete di metallo cocente, talmente da calda da strapparmi ogni volta un urlo di dolore. Io non sapevo nulla, ovviamente. Non sapevo dove ci stavano portando, no sapevo perché ci stessimo mettendo così tanto, non sapevo perché ero finito anche io nel programma Allevamento. Nel Prima ero un uomo comune, lavoravo in un bar vicino al lago. Un incantevole laghetto meta di molte giovani coppie e turisti, i quali, dopo aver goduto delle bellezze naturali che il panorama aveva da offrirgli, entravano nel mio bar per rifocillarsi. E io servivo, col sorriso sulla bocca, taglieri con su ogni genere di salumi, insaccati, formaggi e altri prodotti animali Se solo avessi saputo. Se solo mi fossi interessato a come venivano trattati gli animali nel Prima forse avrei condotto una vita diversa.
Tutto quello che sapevo era che ora stavo provando sulla mia pelle quello che gli animali hanno provato in passato, nei macelli, negli allevamenti. Il mio corpo era segnato dalle sevizie quotidiane alle quali io ed altri maschi come me venivamo sottoposti. Le nostre pelli erano graffiate, bruciate dai pungoli elettrici per contenerci nelle gabbie, per non farci avvicinare l'uno all'altro. Le tracce dei morsi erano le peggiori. Non tanto perché fossero peggio del resto delle ferite, ma perché ce le eravamo procurate tra di noi. C'erano dei momenti nei quali eravamo in totale stato di incoscienza, vagavamo per la gabbie come fantasmi. Irritabili, stanchi, affamati. Ricordavo ancora le prime aggressioni tra di noi. La frustrazione prendeva il sopravvento, i morsi della fame facevano vibrare le nostre membra, le menti erano annebbiate, la visione distorta, oscurata. Uno dei maschi in gabbia con me caricò e prima che potessi rendermene conto mi aveva gettato a terra con una violenza inaspettata, considerando il grave stato di carenza in cui si trovava. In cui ci trovavamo. Ricordavo il morso, il dolore, il sangue che sgorgava dalla mia spalla sinistra, il pezzo di pelle mancante. Ancor più indimenticabile era il volto dell'altro maschio, che gustava con inquietante gioia le mie carni. Ma la gioia del suo mezzo sorriso veniva tradita dagli occhi. I suoi occhi mi fissavano, e io fissavo lui. Lo sguardo stanco sembrava chiedermi scusa, sembrava provare compassione, colpa nei miei confronti e disgusto nei suoi. All'inizio non capivo, ma quando tocco a me perdere la testa quelle sensazioni si incisero in me come se fossero state scolpite. All'inizio non mi importava della mia preda, dissanguata, tremante, alla quale avevo strappato un buon pezzo di coscia. La felicità iniziale di aver finalmente qualcosa sotto i denti si trasformò presto in orrore per l'atto che avevo appena compiuto. Piangevo, le lacrime si mescolavano nella mia bocca al sangue della vittima, i sensi di colpa, la rabbia e la vergogna si alternavano senza sosta, ma allo stesso tempo non potevo fare a meno di gustare quel pezzo di carne fresca. La mia confusione era totale, nella mia mente le sensazioni si mescolavano a un senso di irrealtà, di incoscienza. Sembrava quasi che in quel momento fossi al dì fuori del mio corpo e stessi osservando la scena dall'esterno, da un punto di vista chiuso in una dimensione non reale, una dimensione nella quale nessuno poteva farmi del male. Un forte sobbalzo mi ridestò dai miei pensieri. Probabilmente avevamo preso un dosso a forte velocità. Ancora una volta i maschi al centro persero l'equilibrio e iniziarono a sbattere l'uno sull'altro. Io cercavo di estraniarmi, di non pensare. Le pareti del camion avevano delle finestrelle di infime dimensioni, ovviamente sbarrate. Però quei quadrati erano l'unica fonte d'aria a portata di mano. E io avevo un disperato bisogno di aria. I corpi ammassati su di me, le pelli che strusciavano involontariamente, l'odore di sudore e di paura mi stavano dando il voltastomaco. Cercando di fare pressione sui maschi di fianco a me, feci qualche passo per avvicinarmi alla fonte d'aria. Un passo alla volta, con calma. Se avessi cercato di lanciarmi verso la finestra mi avrebbero rigettato indietro e, probabilmente, avrei scatenato anche una rissa. Approfittai delle pareti. Erano talmente incandescenti da aver creato un passaggio di pochi centimetri. Abbastanza da permettermi di avanzare ancora più indisturbato. Mi schiacciai contro il metallo infuocato, la mia pelle gridava pietà, ma il mio bisogno d'aria era più forte del dolore delle bruciature. Dopo istanti che parvero interminabili riuscii finalmente a raggiungere la mia metà. Un altro maschio aveva avuto la mia stessa idea, avvicinandosi dalla parte opposta. Ci guardammo, capii subito che non era un piantagrane. Cercando di non scontrarci con gli altri, ci avvicinammo entrambi a quel piccolo quadrato. Le nostre mani strinsero quelle sbarre metalliche che ci impedivano la fuga. Anch'esse erano bollenti. Ma non mi importava. L'unica cosa importante in quel momento era l'aria pura che mi colpiva il viso, entrava nei polmoni e mi dava una sensazione di libertà. Chiusi gli occhi. Ero in un campo erboso, il tappeto d'erba, soffice e profumato, si disperdeva e non riuscivo a vederne la fine. Correvo spensierato per quel prato paradisiaco, assaporavo il vento che mi sferzava il volto, le mie braccia rivolte verso il cielo godevano del fresco del mattino. Il cielo azzurro e le nuvole bianche sembravano uscire da un dipinto. I miei piedi volavano sull'erba, il mio corpo nudo, fuori dalle gabbie, riconquistava la sua natura. Assaporai la libertà. La Libertà. La Libertà. La Libertà. La Libertà. Un altro sobbalzo mi fece riaprire gli occhi, allontanandomi per sempre da quella visione. Guardai fuori. La velocità del camion mi rendeva impossibile distinguere i particolari, ma stavamo indubbiamente percorrendo un'autostrada, affiancata da dei campi di erba scura. Sembrava bruciata, non avrei saputo dire. Mentre sforzavo lo sguardo per cogliere qualche dettaglio in più mi sentii afferrare per le spalle e gettare all'indietro. Un altro maschio, anch'egli probabilmente bisognoso di aria, mi aveva aggredito. Ma non avrei ceduto. Non Stavolta. Noncurante dei corpi che involontariamente mi colpivano, mi gettai addosso al maschio e lo colpii con tutta la forza che avevo alla testa. Si vedeva che era uno dei più robusti, infatti insaccò il colpo come se niente fosse e mi tirò un pugno sul naso, rompendomelo. Accecato dalla rabbia, gli saltai addosso e lo morsi più forte che potei alla gola. Il suo sangue mi riscaldava la bocca, le sue urla mi perforavano i timpani.In men che non si dica quel viaggio infinito, privo di cibo e acqua, fonte di stress e nervosismo divenne lo scenario di una carneficina. Aizzati dai nostri scontri, anche gli altri maschi iniziarono a colpirsi a vicenda. Il rumore era assordante. Le grida di rabbia, di paura e di dolore rimbombavano per tutta la gabbia di ferro. Ero circondato da sangue, il pavimento era coperto di sangue e altri fluidi, tanto da renderlo scivoloso. Molti maschi perdevano l'equilibrio e cadendo venivano sopraffatti quelli più grossi, che non perdevano tempo e si avvinghiavano alle loro carni, affamati, intontiti, ciechi di paura. L'odore era insopportabile, la puzza di sangue penetrava direttamente nelle mie ossa. Ero a terra, il corpo del mio aggressore affianco a me. Morto. Il maschio che aveva condiviso con me quello spiraglio di luce era disteso a terra a pochi passi da me. Un altro maschio dagli occhi spiritati gli aveva aperto la pancia a mani nude e si stava gustando quello che probabilmente era stato un fegato. Era un viaggio senza speranza. Saremmo arrivati a destinazione morti, per lo meno la maggior parte di noi. Andava bene così, questo avrebbe scombinato i piani di chiunque ci aveva fatto questo. Mi rialzai e mi gettai nella mischia. Non avevo ancora finito. Mi avventai su tutti quelli che mi si paravano davanti, i corpi si scontravano, le dita affondavano negli occhi, accecando. Le unghie penetravano nelle carni, graffiando. Le urla animalesche erano diventate ormai un tutt'uno, un rumoroso lamento straziante e al tempo stesso vittorioso. Mi sembrava di Essere un gladiatore, le fiere i miei nemici. Gli umani, i miei nemici. L'odore di sangue e carne smembrata mi aveva ormai dato alla testa, inizia ad azzannare qualsiasi cosa, qualsiasi arto, volto o gola che mi si parassero davanti. L'eccitazione saliva, la violenza infuriava come una tempesta dentro di me. Ancora una volta non mi sentivo presente. Ero lì, ma era come se la mia coscienza o la mia anima si fossero estraniate dal mio corpo. Mi guardavano dall'esterno. Io mi guardavo dall'esterno. E quello che vedevo era solo una macchina da guerra con la pelle lacerata, Sporca di sangue, polvere e sudore. Non sentivo più nulla, il lamento straziante dei maschi agonizzanti era diventato parte di me, lo percepivo e probabilmente anche io stavo emettendo gli stessi suoni. All'improvviso mi venne un'illuminazione. La finestrella! Se mi fossi schiacciato per bene tra le sbarre forse avrei avuto una possibilità, una via di fuga. Corsi verso la finestra, scavalcando e calpestando corpi, affondando i piedi negli stomaci aperti e facendo fatica a mantenere l'equilibrio sul pavimento insanguinato. Avevo raggiunto il punto. Cercai di far passare prima la testa, poi il torso. Mi sentivo schiacciato, compresso all'estremo, ma si stava rivelando più semplice del previsto. Avrei potuto pensarci prima. Mentre cercavo di far passare le cosce assaporai ancora una volta il vento, l'aria che mi colpiva in volto e che mi scompigliava i capelli. Avrei raggiunto la libertà. All'improvviso sentii due mani forti afferrarmi per i piedi. No, non ora, ero quasi fuori. Il maschio che mi aveva preso iniziò a tirare e a trascinarmi di nuovo dentro, all'inferno. Il mio busto ormai martoriato dalle lotte e dal calore insopportabile delle sbarre ritorno nel camion, seguito dalla mia testa. Mi voltai, feci appena in tempo a scorgere il volto dell'uomo, distorto in una maschera di orrore e follia. La bocca insanguinata era spalancata. La vidi avventarsi su di me. Poi non vidi più nulla.Estratto di un'intervista al guidatore:-"Ho sentito il camion sballottato di qua e di là, era come se il bestiame stesse facendo una lotta all'ultimo sangue. Quando ho deciso di accostarmi ero ormai frastornato dalle grida. Mio dio...Quelle grida. Non penso che le scorderò tanto facilmente. Appena ho aperto la saracinesca del camion mi si è parato di fronte uno scenario agghiacciante. Era l'inferno. Il bestiame...Anzi no, i corpi degli uomini erano per terra, coperti di sangue, ferite, morsi, squartati, alcuni semicoscienti e il resto morti. Non so come mai sia successo, quando sono stati fatti salire sembravano calmi. Penso che questo episodio sia il frutto della paura, della frustrazione e della rabbia repressa di quegli uomini...Probabilmente hanno capito di essere diretti al macello e quindi hanno fatto un suicidio di massa...La natura umana è così imprevedibile."

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