Mi ero sempre chiesto che senso avesse la mia vita. Avevo il vago ricordo, un ricordo confuso e sfocato di una madre. Una madre alla quale ero stato portato via subito. La mia vita è sempre stata circoscritta a questo piccolo box. Le dimensioni talmente ridotte non mi permettevano il minimo movimento. Le mie gambe erano cresciute col tempo, ma non avevano la forza di sorreggermi. Quando dovevo essere lavato venivo caricato su un carrello ed erano gli inservienti ad occuparsi di me. E come si occupavano di me. La mia pelle portava i lividi di tutte le percosse che ho subito, i calci che ho preso, i graffi che mi erano stati procurati dal pavimento di ceramica sbeccata, il pavimento nel quale mi scaricavano per darmi la lavata. Assieme a me molti altri corpi. Non sapevo come si chiamassero, cosa fossero. Cosa fossimo. Io negli anni avevo deciso di chiamare me stesso "io" e gli altri "altri". Le persone cattive che ci facevano male quando ci toccavano erano gli inservienti, avevo scoperto questo nome perché uno di questi l'aveva pronunciato in mia presenza. A proposito di questo. Capitava e capita spesso che gli inservienti parlino di tante cose, anche davanti a me. Io penso che sia grazie a questo che il mio vocabolario si sia sviluppato, assieme alla capacità di formare un pensiero concreto. Non sapevo se loro sapessero quanto ero in grado di comprendere. Da come discutevano sembrava che pensassero a me come un'oggetto inanimato, un essere senza la facoltà di comprensione. Purtroppo per loro, e per me, capivo. Non tutto, ma capivo che ci stavano facendo cose brutte. Avevo capito che gli "altri" si dividevano in due categorie, maschi e femmine. Non penso di aver mai visto queste femmine, ma ero a conoscenza del fatto che mia madre fosse una di loro. Un'altra cosa che mi veniva difficile da comprendere era la somiglianza tra me e gli inservienti. Loro erano più grandi e parlavano, io invece, piccolo, gracile, immobile, non ero in grado di fare i loro rumori. Ci provavo, provavo a emettere suoni, parole, ma quello che veniva fuori era un biascichio confuso. Provavo a parlare con gli altri quando ci trovavamo nelle docce assieme, anche loro emettevano i miei stessi suoni. Ma non ci era permesso interagire tra di noi. Se capitava e venivamo notati, l'inserviente di turno prendeva un grande tubo di ferro e iniziava a usarlo per colpirci sulle gambe, sulle mani, sui piedi. Non sapevo perché non ci avessero mai permesso di imparare a camminare. L'idea di volteggiare libero in uno spazio aperto, tutto bianco, esente dall'odore del sangue, dalla vista di porte arrugginite, ganci e macchie rosse, mi provocava un brivido di eccitazione. Da quando nacqui, la mia vita è stata solo dolore. Ricordavo ancora quando mi amputarono quelle cose che pendevano in mezzo alle mie gambe. Mi avevano appeso a testa in giù, non so dire dove, e un grande uomo con un grembiule di plastica macchiata mi si era avvicinato con un grosso coltello. Lo guardai dal masso avvicinarsi a me, poi non vidi più il suo volto. Un attimo dopo, un'estremo senso di dolore aveva pervaso tutto il mio corpo, le mie grida erano insopportabili persino per le mie orecchie, il sangue mi colava sul busto e sulla faccia. Le vibrazioni del dolore erano diventate spasmi irrequieti e, guardando in basso, vidi le cose che avevo tra le gambe, solo che era stata staccata. Nessuno si era curato di farmi sentire bene, di tranquillizzarmi, di spiegarmi. Appena l'uomo col grembiule si era allontanato era sopraggiunta una donna magra, con la faccia inespressiva. Iniziò ad armeggiare con la mia ferita. Mi stava medicando. Una volta finito con me mi slegarono dai lacci che mi tenevano legato a testa in giù e venni portato via. Prima di uscire dalla stanza, riuscii a scorgere un inserviente che portava tra le braccia un "altro". Ora sapevo cosa gli avrebbero fatto, provai pena e dolore per lui. Le lacrime mi bagnavano le guance, lacrime di disperazione, di dolore, di sfinimento. Venni gettato nel box e li fino ad adesso. Non saprei dire quanto tempo sia passato da quel giorno, che ancora mi fa venire i brividi. Ho scoperto tramite una chiacchierata tra l'inserviente carina e quello coi capelli ricci che esiste una cosa chiamata tempo e si misura in ore, giorni, settimane, anni. Secondo me ero dentro da anni nel box. Una volta, con grande sforzo, provai a chiedere a un inserviente che sembrava più disposto al dialogo di saperne di più sul perché ero lì, ma l'unica risposta che ricevetti fù un violento calcio sulla faccia, talmente forte da farmi sanguinare il naso per molto tempo. Avevo imparato a non fare domande. Ma questo non escludeva il fatto che io continuassi a pensare. Non capivo dove fossi, quale fosse la vera realtà, se la mia condizione e quella degli "altri" fosse normale. Ogni giorno un inserviente dai capelli lunghi e lo sguardo di ghiaccio veniva a farmi una puntura. Non sapevo cosa ci fosse dentro e non avevo mai osato chiedere. I suoi occhi erano un bel deterrente per qualsiasi domanda. La puntura mi veniva fatta in modo frettoloso, quasi maldestro e io osservavo il liquido trasparente scendere nella boccetta di vetro, per poi finire nell'ago conficcato nella mia vena. Un altro ago con il quale avevo a che fare ogni giorno era collegato a una sacca appesa a un tubo. Anche quella era una cosa a me sconosciuta, ma mi faceva passare quegli strani brontolii che avevo alla pancia tutti i giorni. Perché stava succedendo questo? Con il tempo il mio naso aveva imparato a distinguere gli odori. Odore di sangue, un liquido rosso scuro che vedevo uscire dal mio corpo ogni volta che io e gli "altri" venivamo picchiati. Un liquido che si seccava e rimaneva attaccato al pavimento, alle pareti, agli utensili che usavano su di noi e persino sui camici degli inservienti. Avevo imparato presto a riconoscere l'odore di urina e quello delle feci, del quale ero circondato. Non veniva pulito molto spesso il mio box e neanche gli altri. Infatti nella stanza enorme in cui erano collocati tutti i minuscoli box era maleodorante. Io ormai ci ero abituato, anche gli inservienti, ma ogni tanto capitava che passassero persone mai viste prima, persone che si stringevano il naso con i propri vestiti, vestiti che a noi non erano concessi. I momenti più belli sono sempre avvenuti durante il sonno. Quando dormivo la mia mente viaggiava, raggiungeva spazi bianchi, vuoti e liberi. In questi spazi sentivo profumo di pulito, lo stesso che percepivo quelle poche volte che il mio box veniva sanificato. Nello spazio bianco erano presenti anche gli "altri". Parlavamo tranquillamente, ci rincorrevamo, giocavamo, sorridevamo. Nei sogni eravamo felici. Io ero felice. Quando mi svegliavo l'olezzo della grande stanza mi riportava subito alla realtà, i mio occhi vagavano e osservavano gli altri corpi che giacevano nudi nei loro box. Anche loro sapevano sognare? Speravo tanto di si. Un giorno successe una cosa strana. L'inserviente che veniva a farmi le punture giornaliere era cambiato. Era un uomo dai capelli ricci castani, gli occhi erano lucidi. Sembravano buoni. Ma avevo compreso che fidarsi di qualcuno non mi avrebbe fatto mai del bene. Improvvisamente, dopo aver estratto l'ago dalla mia vena, l'uomo sporse la sua mano verso di me e la posò sulla mia testa. Iniziò a fare avanti e indietro delicatamente, era una sensazione piacevole, rilassante, mi faceva quasi sentire la necessità di abbracciarlo. -"Carezza." Mi disse l'inserviente. -"Questa si chiama carezza. So che qua dentro non te ne sono mai state fatte. Non vi hanno mai mostrato la gentilezza, lo so bene piccolino."La sua voce era strana, faceva lunghe pause per prendere respiri profondi, sembrava sul punto di piangere. - "Io sono Chris. Il mio nome è Chris. Te mi capisci?" Io lo capivo?, si Chris, ti capivo. Annui. Lui parve sorpreso, i suoi occhi si sgranarono e mi fissarono intensamente. - "Sai come ti chiami piccolo? Hai un nome?" Avevo un nome? Sapevo cosa fosse un nome ma non mi ero mai preso la briga di assumerne uno, tanto non lo avrei usato con nessuno. Cercai di dirglielo, ma le parole uscivano flebili e mischiate tra di loro. Rinunciai all'impresa e scossi la testa. Lo sguardo di Chris era dispiaciuto, triste. - "Allora posso trovartene uno io, che dici, vuoi?" Volevo un nome? Si, lo volevo. Volevo essere riconosciuto da qualcuno, anche solo da una persona, per l'essere senziente che ero. Io non ero un oggetto e non volevo essere trattato come tale. Annui ancora una volta.-"Bravo piccolo. Che ne dici di Achille? Sai, Achille era un guerriero greco, faceva parte di un'antica civiltà che era lo splendore del genere umano. La storia di Achille viene narrata da un poeta, uno scrittore, Omero. Egli narra le sue gesta, i sui combattimenti, il valore con cui affronta le situazioni, il suo coraggio. Tu sei come Achille. Vivi in una situazione disperata, ma sei ancora qui. Resisti a tutto quello che ti fanno, sei una persona coraggiosa."Achille.Mi piaceva quel nome. Aveva anche un bel suono. Io però non ero un'eroe, non mi sentivo tale. Però gli eroi affrontano le sfide, io percepivo la mia vita come se fosse essa stessa una sfida. Mi sforzai di articolare al meglio possibile i miei pensieri, le mie parole. Con la voce tremante, fievole, feci la domanda.- "Chris, perché mi fate questo?" I suoi occhi, fino ad allora lucidi, lasciarono finalmente scivolare le lacrime, un pianto silenzioso, intimo. Ancora una volta, l'istinto di abbracciarlo. - "Achille, tu sei qui perché gli umani sono deboli. La loro debolezza sfocia nella crudeltà. Gli umani, pur di non rinunciare ad alcuni privilegi, preferiscono lasciare che bambini, uomini e donne, persone come te, come loro, subiscano tutto questo."Umani, io sono umano, anche i miei aguzzini sono umani. La mia mamma era umana. Mamma. Anche se non ti ho mai conosciuta, ho sempre sentito la tua mancanza. -"Chris, cosa mi vuoi fare?" Dissi con voce tremante.-"Achille, io non ti farei mai del male. Faccio parte di un movimento che vuole liberarvi, vuole liberare te e quelli che come te sono tenuti prigionieri. Ma per farlo abbiamo bisogno di più informazioni, di organizzazione, io sono qua per questo. Non posso dirti altro, mi dispiace." Avvicinò il suo volto e mi sussurrò una cosa all'orecchio, una frase che mi fece vibrare le menbra, mi fece fremere dalla voglia di libertà. -"Io ti prometto che tornerò a prenderti, non sei solo, so che puoi avere questa percezione ma non sei solo. La fuori c'è tanta altra gente che la pensa come me e vuole la liberazione totale, vuole che tutti voi siate liberi e che possiate finalmente vivere in pace. Quindi aspettami, io tornerò per te."Con queste ultime parole, Chris si era alzato e, dopo avermi dato un'ultima carezza, si avviò verso la porta, lontano dalla mia vista.Lontano da me.Le sue parole avevano acceso in me un piccolo fuoco, un fuoco che cresceva sempre di più e prendeva il nome di speranza, un concetto che mai prima d'ora avevo sperimentato. Speranza, che bella parola. Avevo giurato che avrei resistito fino al suo ritorno.
Non fu così.Non rividi mai più Chris.Non rividi più nulla.Parecchio tempo dopo questa magica visita, il solito inserviente dallo sguardo duro mi prelevò, mi caricò a forza sulle spalle e mi portò in una stanza bianca. Quest'ultima era macchiata di sangue più o meno dappertutto, alle pareti erano disposti scaffali pieni di attrezzi appuntiti e dal soffitto scendevano dei ganci arrugginiti. A questi ganci erano già stati appesi dalla schiena alcuni degli "altri". Inorridii. Mi venne voglia di gridare, ma prima che potessi farlo un altro uomo con un grembiule di plastica spessa e macchiata di sangue mi prese e mi conficcò di forza il gancio tra le mie scapole. Il dolore esplose in me, insopportabile, la mia vista era annebbiata, le gambe mi penzolavano inerti e sentii l'urina calda scendere copiosa. L'uomo con il grembiule mi si era avvicinato, il volto inespressivo, gli occhi che scrutavano prima l'urina e poi il mio volto. Quello era uno degli umani di cui mi aveva parlato Chris. Nei suoi occhi non c'era segno di empatia, umanità, benevolenza.Non c'era niente.Mi tirò indietro la testa, sentii la lama fredda avvicinarsi violenta al mio collo.Poi tutto si fece nero.
Non vidi mai lo spazio bianco.
nota:
Il bambino in questo caso rappresenta il vitello da carne bianca
Sono quegli animali "scartati" dagli allevamenti di mucche da latte, i figli maschi delle mucche usate per questo tipo di produzione. Come tutti i mammiferi anche i bovini generano latte solo dopo aver partorito ed è questo il motivo per cui vengono continuamente ingravidate. Se il nascituro è una femmina verrà indirizzata come la madre a produrre latte se invece nasce maschio il suo destino è quello di diventare una fettina di carne tenera. In entrambi i casi vengono strappati alla madre dopo solo pochi giorni di vita. Questo prematuro allontanamento avviene per diverse ragioni: non permettere alla madre di affezionarsi troppo ai cuccioli e non sprecare latte destinato alla vendita. Ovviamente la madre che allatterebbe i propri piccoli per 9/12 mesi soffre moltissimo per questo violento distacco come del resto i vitellini che continuano a cercare il latte e il calore della mamma. Dopo questa separazione il vitello per i primi mesi di vita viene rinchiuso in un box poco più grande di lui, solo in seguito verrà trasferito in un recinto di gruppo, in questi stretti spazi il cucciolo non ha modo di muoversi e sviluppare muscoli, manifestando evidenti stati di stress riconducibili in continui movimenti stereotipati o giacendo fermi a terra. Il latte e l'erba che dovrebbero bere e brucare vengono sostituiti con un unico liquido composto da latte magro in polvere (prodotto di avanzo dell'industria casearia) integratori, farmaci e altre sostanze chimiche. Questa alimentazione volutamente priva di ferro è studiata in modo da ottenere una carne pallida, che invece normalmente in tutti i bovini è rossa, costringendo il vitello ad una costante condizione di stanchezza e malessere, dovuta ad una forte anemia. A sei mesi di vita, quando raggiungono il peso di circa 200 kg questi poveri animali sono condotti al macello.
fonte:
https://www.essereanimali.org/cibo/bovini/
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Che cos'è l'inferno?
Short StoryLa vita per gli esseri umani è cambiata. Per buona parte di essi, almeno. Uno sconosciuto evento ha infettato gli animali, li ha resi inferociti, inavvicinabili, furiosi, impossibili da mangiare. Ma l'essere umano non è pronto a lasciar andare il pi...