Cigolii

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L'uomo percorreva il pavimento a scacchi con aria assente, solo quando, ogni tanto, si affacciava a una delle finestre della stanza dell'ultimo piano, il suo viso sembrava animarsi

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L'uomo percorreva il pavimento a scacchi con aria assente, solo quando, ogni tanto, si affacciava a una delle finestre della stanza dell'ultimo piano, il suo viso sembrava animarsi.

Le sue giornate trascorrevano così, tra un'occhiata alle finestre e uno sguardo vuoto ai vari orologi disseminati sui mobili di rame, che occupavano quella stanza rendendola una sorta di percorso a ostacoli.

Non alzava mai lo sguardo, non voleva fissare il soffitto dipinto con gli emisferi celesti. Vedere la luminosità di Canopo o di Rigel non gli dava alcun conforto, non indicavano mai niente di buono: fuochi fatui nel firmamento.

Scese, trascinando la gamba sinistra di metallo, la ripida scala a chiocciola che portava al piano di sotto. Lì tutto era squadrato: migliaia di libri traboccavano dagli scaffali alle pareti, una sola finestra, lunga e stretta, tavolini quadrati su cui lei aveva lasciato fogli scarabocchiati. Alcuni erano finiti sui divanetti di pelle consumata.

Qualcosa scricchiolava di continuo in quella stanza, dove tutto era squadrato e affilato. Un cigolio si ripeteva come una frase lanciata al suo indirizzo. No, non era questo il momento di rispondere, non ne aveva voglia. Eppure avrebbe avuto tante cose da dire. Anni e anni di silenzio erano un bel fardello, e lui ne aveva accumulati tanti di silenzi e di fardelli. Fardelli di parole mai pronunciate, ognuna con il suo significato nascosto, il proprio peso, la musicalità.

Sai quante volte le avrebbe detto "abacà!". Così, senza motivo. E magari lei si sarebbe voltata e l'avrebbe guardato stupita e un po' eccitata con l'espressione di chi non si aspettava di sentire qualcosa del genere.

Ricordava solo adesso quanto fosse bella la sua schiena. Forse non l'aveva mai guardata davvero, perché era davvero, davvero bella. "Sintagma !" , gli sarebbe venuto da esclamare, ma come sempre non ne avrebbe avuto il coraggio e sarebbe rimasto in silenzio.
Imboccò la seconda scala a chiocciola.

Giunto sul pianerottolo spoglio, non esitò ad aprire la porta a sinistra, trovandosi in quella che era la sua stanza; se avesse potuto dormire, si sarebbe accoccolato su quel letto in ferro battuto accostato alla finestra. Tutto era di un grigio opaco: l'elica al soffitto, la sedia accostata al letto, il poggiapiedi, la strana lampada a forma di cane. Gli sembrava di stare dentro un cielo gravido di nuvole ad aspettare il lampo che lo avrebbe incenerito insieme a tutto quel grigiore.

Pensò di essere al riparo da cigolii e sussurri. Non aveva fatto i conti con il vecchio orologio a forma di sommergibile sotto il letto. Il suo ticchettio preciso sembrava porgli una domanda, a cui non voleva rispondere, perché non voleva parlare. E anche se avesse parlato, se avesse rotto il muro di silenzio che li aveva divisi da sempre, come avrebbe potuto farle capire quanto lui si sentisse abarico in quel momento e non solo?

"Abbadessa !", le avrebbe urlato se solo ne avesse avuto la forza. Se solo questa sua afasia mentale lo avesse lasciato per qualche istante. O forse avrebbe preferito accostarsi al suo orecchio sinistro, quello che preferiva per la sua forma così uguale a quello destro, e le avrebbe sussurrato "abissale" con tutta la passione che un uomo della sua età poteva mettere in un insieme di sillabe contenenti sibilanti.
Neanche quella stanza gli offriva pace.

Non avrebbe aperto la porta a destra. Non voleva vedere il letto, così simile al suo, e i suoi oggetti, soprattutto squadre, bilance, spade varie. I cigolii lì erano insopportabili. Si portò le mani ai capelli, scompigliando la zazzera ribelle. Forse avrebbe voluto sentirlo gridare "abavo" e sarebbe rimasta delusa, gli avrebbe detto che in fondo lui sarebbe rimasto sempre un abbacone, avrebbe distolto lo sguardo e di nuovo gli avrebbe voltato le spalle.

Scese un'altra scala e si trovò in un'ampia stanza occupata da una vecchia cucina in ottone e un usurato salotto.
Dall'orologio a cucù sopra il divano fece capolino un uccellino meccanico arrugginito. Il suo canto uscì a singhiozzi. Nessuno lo aveva oliato da tempo. Fu quello a dargli il colpo di grazia.

Era tardi ormai, tardi per canticchiare "abbancare" o " abbarbaglio", per agglutinare un "abbaruffo" o un "abbassalingua". Lei non avrebbe capito e lui sarebbe stato ancora più amareggiato e ferito. E allora le avrebbe gridato di andarsene, di percorrere finalmente i pochi passi che la separavano dalla porta, di uscire e ignorare le sue urla mute, di allontanarsi una volta per tutte da tutti quei suoi fardelli sempre più numerosi e gonfi. Lei avrebbe chiuso la porta e lui sarebbe rimasto solo. Ma lo era già prima. Erano soli insieme.

Chissà se si sarebbe allontanata o sarebbe rimasta lì, l'orecchio incollato alla porta per sentirlo piangere e invocare il suo nome. Sarebbe rimasta delusa. Perché se avesse avuto ancora fiato nei polmoni e volontà nel cervello, se avesse avuto la forza di alzarsi e piantarsi al centro di quella stanza ormai vuota, solo una parola sarebbe uscita dalla gola dal suono antico e musicale e con un significato di speranza. E questa parola l'avrebbe sillabata a squarciagola così che lei avrebbe potuto sentirla ovunque si trovasse, senza appoggiare l'orecchio alla strana porta di metallo ormai consumata dalle loro incomprensioni. Allora, forse, lei sarebbe tornata sui suoi passi, avrebbe riaperto quella porta e insieme a lui avrebbe ripetuto "Abbraccia fusto!".

Aprì la porta e percorse l'ultima scala.

Si girò a guardare quella strana casa di metallo sugli alberi in mezzo al niente: un amalgama indistinto, opaco, niente era in grado di farlo più brillare.

Estrasse dai larghi calzoni rossi ciò che restava di un mazzo di carte. Lasciò cadere a terra la prima delle tre: la sua immagine sembrava irriderlo. Il caos, l'innocenza e la follia, il disordine, l'imprevedibilità, la genialità. Presto sarebbe caduto anche lui. Erano ormai caduti tutti. Restava lei, che stava andando chissà dove, lontana da lui, con la spada in una mano e la bilancia nell'altra, e la Tredicesima carta, l'Arcano Senza Nome. Entrambi in collisione per decidere le sorti di questo mondo.

Lo splendido disegno che arricchisce il capitolo è di AlessiaBarbanera

Fino alla fine del mondo. Arcani e dintorni.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora