"Born to Be Wild"

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Una foschia velata si adagiava sull'asfalto

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Una foschia velata si adagiava sull'asfalto. C'erano specchi nelle ombre, specchi di un'era ormai desolata, un'era in cui gli uomini amavano la propria solitudine e i sogni erano un ricordo sopito. Presto la luce della sera avrebbe affrettato la mezza luna, riportando con sé le illusioni e i dubbi di questo mondo.

L'uomo era seduto su una moto colore  del bronzo e dell'oro con il cavalletto già alzato e il motore acceso con il cambio in folle. Non se ne vedevano in giro di moto così, sembrava uscita da un'altra epoca, così come il casco che indossava, degli stessi colori del mezzo, che non lasciava trasparire alcunché del volto. Solo dalla griglia fitta della visiera proveniva un lucore d'argento.

Tirò la leva della frizione con la mano sinistra, su cui spiccava un tatuaggio a forma di biga alata. Innestò la prima marcia con il piede sinistro dando un colpo verso il basso. Accelerò un pochino e iniziò a rilasciare molto lentamente la frizione. Quando il motore calò di giri, diede un po' più di gas. Continuò a rilasciare la frizione gradualmente e finalmente partì.

Mentre percorreva la strada deserta, attraversò una cittadina spettrale, superando un parco giochi abbandonato, una chiesa spalancata rivestita di assicelle, un campo pieno di resti di macchine agricole.

Accelerò finché la ruota anteriore non si staccò per un attimo dal terreno. Non c'era niente di rilevante lì, doveva spingersi più lontano, qualcosa lo chiamava, c'era del lavoro da fare. E lui era ligio al suo mestiere. Lo era sempre stato, non era solo l'effetto della bella stagione. Lui era così tutti i giorni, c'era nato. Non nel vero senso della parola, semplicemente quel che era in quel momento era esattamente quello che scoprì di essere a otto anni, quando la sua bellissima Vivienne, giocando con un cagnolino, aveva inavvertitamente avvelenato il cucciolo con i suoi artigli letali. Era scoppiata in lacrime mentre l'animale schiumava dalla bocca. Lui aveva capito subito cosa fare.

Si era inginocchiato accanto alla bambina e al cane, aveva guardato quest'ultimo negli occhi consapevoli, poi con uno scatto repentino e velocissimo gli aveva afferrato la testa e l'aveva girata violentemente, spezzandogli l'osso del collo.

Lei era corsa via urlandogli "Mostro!". Non gli aveva rivolto più la parola finché non si era resa conto, dopo qualche tempo, che anche lei rientrava nella categoria, quella dei mostri.

Potrebbe essere banale – in fondo lo era, un po' come tutti gli altri – e ripetersi per l'ennesima volta che era stato come girare un interruttore o come la luce improvvisa e abbagliante di un flash sparato dritto in faccia. Avrebbe reso l'idea, ma non gli piaceva ripetersi, anche se lo faceva spesso. Era un altro aspetto della banalità con cui doveva convivere e sapere di essere in buona compagnia non migliorava le cose. Comunque. Quel che voleva dire era che la colpa era solo la sua se era venuto su così, così ligio al suo mestiere.

Lasciò da parte quei pensieri e si concentrò sulla guida. La moto era per lui un'emozione complessa, fatta da una serie di sensazioni diverse. Una realtà parallela in cui la percezione di ciò che lo circondava si modificava. In sella il tempo non lo misuravi col ticchettio delle lancette, ma in quantità di strada percorsa, in chilometri. E mentre andava, un chilometro dopo l'altro, per un istante aveva come l'impressione che passato e futuro fossero vicinissimi, arrivando a toccarsi. Una frazione di tempo in cui non c'era nulla da ricordare e nessun piano da seguire, dovevi solo guidare.

Fino alla fine del mondo. Arcani e dintorni.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora