Chapter one

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Era una mattinata fredda e nebbiosa, una di quelle che ti fanno pensare che sarebbe meglio restare nel proprio letto, tra il calore delle coperte e la bellezza dei sogni. Ed ecco perché la mattina era la parte che più odiavo della giornata, quando non potevo restare a dormire perché il fastidioso rumore della sveglia mi perforava i timpani e mi svegliava completamente costringendomi ad alzarmi, per fermare quel suono assordante. E come ogni mattina, scivolai verso il bagno, sfregandomi gli occhi che imploravano di chiudersi, per almeno un altro po', stanchi di vedere quel mondo pieno di persone noiose e monotone, che ti ronzano attorno come se fossero uno sciame di api, che seguono la massa, che fanno tutte le stesse cose; un po' come nelle vecchie tribù dei pelle rossa, dove tutti avevano una cultura comune, una società che imponeva cose uguali per tutti. Oramai le persone non erano più originali; anzi, tutti indossavano le stesse maschere e gli stessi sorrisi, che magari cambiavano anche dall'importanza della persona che avevano di fronte, senza mai usare quella vera; e quelle poche persone che cercavano di andare 'fuori dagli schemi' di questa società, venivano addirittura emarginate e considerate diverse, insomma, insultate. Sembravano un po' i protagonisti delle opere di Pirandello, il grandissimo autore italiano che inventò questa 'definizione', paragonando le persone agli antichi attori romani, che durante le loro recite dovevano utilizzare delle maschere da mettere sul viso, che le facevano diventare delle persone diverse, proprio come tutti fanno oggi, solo che adesso viviamo in un mondo più moderno e tecnologico. Però alla fine potevo considerarmi anche io uno di questi 'attori', perché tutti ormai abbiamo questo comportamento che ci porta a giudicare chi è diverso da noi, quindi non mi trovavo nella condizione adatta per criticarli.
Dopo essermi cambiato nel minor tempo possibile, giusto per rendermi presentabile, mi preparai un caffè, con la speranza che almeno quella bevanda amara come la mia anima mi riuscisse a svegliare un po', giusto per raggiungere l'auto parcheggiata in giardino, con la quale sarei potuto andare poi al mio deprimente lavoro. Non amavo particolarmente il mio nuovo impiego; non facevo altro che svuotare case abbandonate dopo la morte dei loro acquirenti, con i loro oggetti personali di cui fecero tesoro, che io dovevo dividere, vendere o consegnare alle persone il cui nome era presente sul testamento dei recenti defunti. Non sapevo dare nemmeno un vero nome a questo lavoro e forse non lo credevo nemmeno tale: perché degli sconosciuti avrebbero dovuto 'invadere' la privacy di una casa che prima apparteneva a persone nella quale avevano condiviso dei bellissimi momenti? E chi ero io per strappare a quella casa oggetti che gli appartenevano? Nonostante tutto, il mio lavoro era l'unica cosa che potevo considerare mia: non potevo dire di avere quel tipo di famiglia che tutti considerano 'perfetta', anzi, non potevo proprio dire di avere alcuna famiglia; si dice che lo scopo della vita, il motivo per il quale siamo stati plasmati sia quello di portare avanti la specie umana, di generazione in generazione, ma per me non era affatto così, mi entusiasmava il fatto di avere una moglie e dei figli in futuro, a cui donare tutto il mio amore, e per i quali fare sforzi per renderli felici e per donargli tutto ciò di cui necessitavano, ma per i miei ventiquattro anni e la situazione in cui mi trovavo al momento era ancora un' utopia nonostante io fossi davvero stato sul punto di adempiere al 'compito divino': fino a qualche mese fa potevo infatti contare sull'amore della mia fidanzata, un sentimento che gli era poi venuto a mancare, visto che si era sentita di lasciarmi con una stupida e-mail.
"Sono stata molto bene con te, mi hai fatta sentire come mai nessun altro era riuscito a fare e come nessuno riuscirà mai, ma è da tempo che la nostra relazione ha preso una piega sbagliata, il nostro rapporto risente della mancanza dell' amore e della comunicazione che prima ci univano così tanto, e credo che ormai sia giunto il momento di prendere strade diverse e con persone diverse, ma sappi che occuperai sempre lo spazio più grande del mio cuore.

Megan"
Ridicolo il fatto che la ricordassi ancora a memoria. Mi aveva segnato così nel profondo da non poterla ancora cancellare o spingerla nella parte più oscura della mia mente. Scacciai via quel pensiero che ancora, dopo molti anni, era una ferita aperta, che sembrava non cicatrizzarsi mai, che non riusciva ad essere dimenticata; perché l'amore può essere la cosa più bella del mondo, ma ti può anche rovinare in così poco tempo da lasciarti solo a rimpiangere il passato e a colpevolizzarti praticamente su tutto, su qualsiasi parola detta o azione compiuta talmente sbagliata da allontanare la persona che, con te, stava scrivendo un pezzo di storia personale che sarebbe sempre rimasta impressa in un posto sconosciuto della propria memoria; perché quando le cose vanno così inizi a rimproverarti sul fatto di non averla considerata abbastanza, di non averla ascoltata come voleva e di non averla amata come desiderava. Dovevo dimenticare, mettere tutto in un cassetto e chiuderlo a chiave, per sempre, ma più ci provavo e più quel ricordo mi assaliva, perché effettivamente non avevo mai permesso alla mia mano di lanciare quella chiave, perché forse avrei sempre voluto ricordarmi di quel periodo della mia vita dove, forse, ero stato davvero felice e dove avevo qualcuno con cui condividere i miei spazi, a cui raccontare le mie giornate.
Uscito di casa, raggiunsi l'automobile con cui sarei andato a quella casa a me ancora sconosciuta, di cui non sapevo nient'altro oltre a quelle poche informazioni che il mio datore di lavoro mi aveva fornito.

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