Ricordi

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La sala d'attesa dell'ospedale era fredda. Delle scomode sedie erano poste l'una accanto all'altra seguendo una linea dritta che si estendeva fino a metà dello stretto corridoio. I termosifoni erano spenti e le persone sedute si riscaldavano con una tazza di tè o di caffè bollente. In disparte sedeva un uomo, con una giacca lunga, nera e di lana, i ricci corvini scompigliati e gli occhi color ghiaccio fissi davanti a sé. Sherlock sospirò e si stropicciò la faccia con una mano. Si alzò in piedi e attraversò a lunghi passi il corridoio fino alla porta d'uscita. La osservò intensamente prima di fare dietrofront e ritornare a sedersi con un tonfo sulla scomoda sedia di plastica. Stava facendo uno sforzo immane per non afferrare il primo medico che gli capitava tra le mani e scuoterlo finché non gli avesse detto in che stanza si trovava il suo amico. Doveva rilassarsi. Sarebbe andato tutto bene. Queste due frasi non servirono affatto a rassicurarlo e, anzi, aggrottò le sopracciglia accigliato e si chiese come avesse fatto il suo cervello ad avergli proposto quelle due stupide frasi che non servivano affatto a farlo rilassare. Si guardò intorno. Doveva sgombrare la mente da tutti i pensieri che gli affollavano la testa, gridando per farsi ascoltare, tanto che gli venne il mal di testa. Il suo sguardo si fissò su una donna, bionda con i capelli lunghi. Avrà avuto sì e no una quarantina d'anni. Aveva gli occhi arrossati e le labbra le tremavano. Stava giocherellando con un piccolo anello d'oro e lo guardava malinconica. La donna era sposata e probabilmente aveva divorziato con il marito, ma perché era in ospedale? Aveva il telefono posato sulle gambe e trasaliva ad ogni vibrazione guardandolo speranzosa come se si aspettasse di veder comparire un determinato nome sul display del cellulare, ma ogni volta spostava lo sguardo, segno che non era mai chi si aspettava che fosse. Portava una simpatica collanina di pasta con su scritto "Migliore Mamma" e, dopo aver finito di torturare l'anello, se la levò e la guardò con tristezza prima di scoppiare a piangere. "Quarantadue anni, divorziata, il figlio è in ospedale, aspetta ansiosamente che l'ex marito le risponda al telefono magari per sapere come sta loro figlio, ma la cosa non accade, quindi al padre non importa più nulla e questo non fa altro che aggiungere tristezza alla donna." Sussurrò Sherlock. Anziché sentirsi meglio, il consulente investigativo si sentì vuoto. Dopo tutte quelle deduzioni c'era sempre John che lo faceva sorridere, con la sua faccia sorpresa, la bocca spalancata, che esclamava un "Fantastico!" Ma adesso John non c'era, perchè era chiuso in una stanza di quel maledetto ospedale.

Abbiamo un grosso problema" John Watson era entrato correndo per le scale dell'appartamento del 221B di Baker Street. L'inquilino che viveva, ormai solo in quell'appartamento, si era allarmato a quell'esclamazione ma aveva tenuto la sua solita maschera di fredda indifferenza. "Non so ballare" esordì infine John, cadendo pesantemente sulla sua poltrona rossa. Sherlock tirò mentalmente un sospiro di solievo. "Potrei insegnarti io" disse con nonchalance. Il medico si mise a ridere. Sherlock alzò un sopracciglio, perplesso. "Che c'è? Cosa ho detto?" Chiese. "No, niente, è che... tu, che balli..." John non fece in tempo a finire la frase che scoppiò in una nuova e fragorosa risata. Sherlock rimase accigliato. Lui aveva fatto una proposta veramente pericolosa, perchè il suo cuore stava battendo a mille e appena John si sarebbe avvicinato per imparare i passi, sicuramente avrebbe sentito che in quel momento il consulente investigativo soffriva di tachicardia. Intanto John si era ricomposto sulla sua poltrona. "Va bene" disse "Che male c'è?"
"Già, che male c'è?" Pensava John mentre si avvicinava a Sherlock per cominciare a ballare. Il consulente investigativo aveva messo un pezzo del suo violino registrato. "Io faccio la parte dell'uomo' esordì. John non fece in tempo a protestare che il suo ormai ex coinquilino lo aveva trascinato al centro dell'appartamento. Il medico non si era mai sentito goffo come in quel momento. Calpestava continuamente i piedi a Sherlock che, dal canto suo stava imprimendo tutta la scena in una nuova stanza del suo Palazzo Mentale. Tutto, dai sorrisi, alle scuse goffe e le guance arrossate per l'imbarazzo, del medico bassino dai capelli biondi e gli occhi blu, che aveva rubato, senza saperlo, il suo cuore. Il cuore che lui stesso aveva affermato di non avere, il cuore che si sarebbe irrimediabilmente spezzato dopo l'imminente matrimonio del dottore. Ma in quel momento il ricordo delle nozze del suo amico aveva lasciato la sua mente, che adesso rivolgeva interamente a John.
Dopo numerosi sbagli, i due ex coinquilini avevano cominciato a ballare come se lo facessero da tutta la vita. Sherlock strinse maggiormente il braccio sul fianco di John e lo avvicinò di più a sé. Il medico appoggiò la testa sul petto del consulente investigativo, che trattenne il fiato. John trasse un respiro profondo. Le sue narici vennero investite dal profumo di Sherlock, quello che ormai associava a "profumo di casa". Per un momento dimenticò tutto: il matrimonio, la finta morte dell'amico, il suo lavoro, Mary... era così bello! Erano soltanto lui e Sherlock, soli contro il resto del mondo, come al solito. John voleva rimanere in quella posizione per tutta la vita ed essere cullato dal battito costante del detective. Prepotente, l'immagine di Mary si fece strada nella sua testa. John non si accorse che i suoi piedi avevano smesso di muoversi, troppo preso dai suoi pensieri. Sherlock lo guardava perplesso. Il medico pensò a Mary, al suo matrimonio con lei... lui la amava! Alzò la testa e si mise a guardare un punto indefinito dietro le spalle del suo amico. Lui amava Mary, ma adorava stare con Sherlock, risolvere crimini, vederlo pensare, agire, osservare gli ingranaggi di quella brillante mente mettersi in moto e il solo pensiero di separarsi da lui gli faceva male al cuore. John sentì una leggera pressione sul suo mento che lo costrinse ad incrociare lo sguardo del detective. "Cosa c'è John?" Gli chiese osservando attentamente il viso dell'amico. John aveva lo sguardo fisso, perso negli occhi dell'uomo che aveva davanti. Anche se avesse voluto dire qualcosa, non avrebbe potuto, perché stava annegando nell'azzurro di quegli occhi. Lui voleva annegare e dimenticare tutti i suoi problemi. "John?" Ripetè Sherlock mentre scuoteva leggermente la spalla del dottore. Come smosso da quel tocco, John si avvicinò maggiormente a Sherlock. Stava affondando e non aveva alcuna voglia di riemergere in superficie. "John" soffiò il detective a pochi centimetri dalle labbra del dottore. Fu forse quella parola, o il fatto che John sentisse il battito del detective andare a mille, a farlo allontanare di colpo da Sherlock. Era come riemergere da un lago ghiacciato. L'aria gli sferzava la faccia e sembrava non voler entrare nei suoi polmoni. Il mondo si stava riempendo di puntini. Sherlock era rimasto immobile al centro della stanza. Aveva un' aria confusa... cosa stava succedendo? Non fece in tempo a dire niente che John aveva già sceso tutti e diciassette i gradini dell'appartamento e si era richiuso alle spalle la porta nera con le cifre dorate. Che diavolo era successo in quella stanza? John non riusciva a pensare ad altro. Gli era piaciuto così tanto stare vicino a Sherlock ma... diamine lui non era gay e sicuramente non poteva essersi innamorato di quel consulente investigativo dagli occhi ghiacciati, gli zigomi appuntiti, i ricci neri e un intelligenza sopra la media che lo faceva sembrare misterioso e così dannatamente attraente. Il medico si bloccò. Lui era innamorato di Sherlock Holmes. Di Sherlock Holmes! Il detective senza cuore che trovava le emozioni un difetto chimico, il granello sulla lente, il sociopatico iperattivo! John si rese conto di non essere troppo disgustato dall'idea di essere innamorato del suo migliore amico. Anzi aveva la sensazione di essere già consapevole di quel sentimento. Lui aveva capito di amare Sherlock quando aveva toccato il cemento di quel maledetto marciapiede davanti all'ospedale. Al suo ritorno dalla "finta morte", l'amore era stato nascosto dalla rabbia e dalla tristezza, dalla tristezza di non essere ritenuto abbastanza fidato da sapere che il migliore amico era vivo. Ma adesso che le cose stavano tornando come prima, tralasciando Mary, l'amore per Sherlock stava aumentando a dismisura. Lui non aveva mai smesso di amare quel folle consulente investigativo. Aveva cercato di rimpiazzarlo con Mary, davvero, ci aveva provato, ma non era riuscito nel suo intento. John era così sicuro di quello che provava, che quasi si spaventò per la sua sicurezza. Tuttavia era abbastanza certo di non essere ricambiato e questo lo terrorizzava a morte. Le sue riflessioni furono interrotte da una fastidiosa vibrazione nella tasca della giacca. Il dottore prese distrattamente il telefono in mano e lesse il nome sul display. MARY. John sbarrò gli occhi. Senza pensarci troppo, corse vicino al ciglio della strada, consapevole di essere seguito da due occhi azzurri dalla finestra del 221B. Con un braccio chiamò un taxi. La vettura si avvicinò velocemente ma non accennava a fermarsi, John non fece in tempo a spostarsi che venne travolto dall'auto. Cadde per terra e sbattè la testa. Aveva la vista sfocata e l'udito ovattato. Tra tutti quei suoni irriconoscibili, distinse una voce bassa e baritonale."Qualcuno chiami un ambulanza!" Strillò Sherlock. "John, sono quì, resisti i soccorsi stanno arrivando." Il consulente investigativo si inginocchiò davanti al dottore. La sua voce tremava ed era terrorizzato, ma non poteva cedere alle emozioni, non avrebbe aiutato John. Prima di svenire, il medico vide due cristalli azzurri squarciare la nebbia davanti ai suoi occhi e una mano rassicurante che stringeva la sua.

Le emozioni sono complicate Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora