Capitolo Primo

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Ero lì, seduta su quel vecchio sedile di quel vecchio taxi giallo a riflettere sull’estate che ogni volta sembrava indossare le scarpe con i razzi a propulsione, era troppo veloce, troppo veloce per tutti quelli che la vivevano, era troppo veloce anche per i disoccupati. Ora vi verrebbe da chiedervi perché io ero lì, sul retro di quel taxi a riflettere sull’estate. Quell’estate non l’avrei più voluta rivivere, avrei preferito sprofondare nell’abisso. Quell’estate mio padre era morto, morto di cancro, mi aveva lasciato da sola in un mondo troppo grande per una quindicenne. Ero rimasta con mia nonna a Roma, città dove ho passato l’infanzia e parte dell’adolescenza. Roma era la mia città, la mia casa e la mia famiglia, perché alla fin fine salta fuori che ci si conosce tutti, come in un vecchio paese di campagna. D’altronde così è l’Italia, un paesone. Io avevo lasciato il mio paese, non pensate ai barconi pieni di emigranti no, era stata una procedura prettamente legale. Mia madre dopo aver divorziato si era trasferita a New York, abbandonandomi alla tenera età di otto anni. Da quel momento la vedevo raramente, non tornava mai volentieri in Italia, se non per eventi importanti di vecchie amiche.

Ora, in tribunale uno si è chiesto“Questa disgraziata ragazzina ha perso il padre e la madre è attualmente residente negli Stati Uniti, che facciamo?” e un altro ha risposto “Spediamo laggiù anche lei, c’è una bocca in meno da sfamare.” Detto fatto, il panorama che il Manhattan Bridge  poteva offrire era scrutato dagli occhi della sottoscritta con un attenzione più che fittizia. In realtà stavo solo pensando a chi poteva essere stata la persona dal cuore di pietra che aveva preso questa decisione. Mentre il taxi si inoltrava a Bowery per poi superare l’Union Square Park e addentrasi a Broadway io mi sentivo sempre più piccola ed insignificante in quella città così grande. Intanto gli auricolari mi ruggivano nelle orecchie sotto il ritmo incalzante di Ed Sheeran, Maroon 5 ed Eminem. Il taxi proseguiva per Broadway e guardavo fuori dal finestrino oscurato, osservavo le persone, commentavo gli outfit e le mise dei passanti. Dandomi una rapida occhiata avevo  un paio di jeans scoloriti, un paio di Converse bianche e una maglietta con una fantasia floreale. I capelli, per quanto cercavo di tenerli in ordine mi contornavano il viso con un color castano, andante per il biondo a causa delle temperature più che calde e i numerosi bagni al mare a Ustica, residenza secolare della nonna siciliana. I miei occhi color nocciola fendevano Broadway attraverso il finestrino, alla ricerca di qualcosa, qualcosa che neanche io mi sapevo spiegare. Il taxi frenò bruscamente all’incrocio tra Broadway e la Fifth Avenue, proprio accanto al Flatiron Building. L’ autista indicò un portone che dava sul Madison Square Garden. Annuii solo perché l’indirizzo coincideva. Il taxi si fece spazio tra la folla di auto fino al portone, l’autista mi aiutò a scaricare i bagagli e infine lo pagai. –Resto mancia.– dissi io in un inglese più che perfetto. Non sembravo assolutamente un italiana alla deriva nella città dei sognatori. Mi avvicinai al citofono e premetti il pulsante con l’incisione “Eleonora Politi.”

–Who is?– disse la sua voce dall’altra parte dell’citofono.

–Mamma sono io. – replicai io in italiano.

–Livia, tesoro, quarto piano, l’ascensore è sulla destra.– rispose lei in un italiano che neanche sette anni di America avevano scalfito.

Quando vidi l’ascensore un brivido mi salì lungo la spina dorsale. Se vi chiedete perché ve lo dico subito. Claustrofobia. Ne ho sempre sofferto, l’ultima volta in cui ho rischiato di morirne è stato nelle catacombe romane.

Ma dato che sono cocciuta e piuttosto pigra, bocciai in partenza l’idea di prendere le scale. Appena le porte dell’ascensore si chiusero dietro di me, i miei polmoni cominciarono a restringersi. “Resisti.” Mi dissi “Sono solo quattro piani, poteva andarmi peggio.” L’ascensore si muoveva con una lentezza disarmante e quando finalmente arrivò al quarto piano ringraziai Dio per essere arrivata a destinazione prima che i miei polmoni si riducessero peggio di quelli di Hazel in The Fault in Our Stars, uno libro tra i milioni che avevo letto. Suonai il campanello della porta che sarebbe diventata la porta di casa mia e aspettai che una singola anima mi venisse ad aprire.

–Tesoro mio!! – trillò mia madre non appena mi vide sull’uscio della porta.

–Come sei cresciuta! Mi hai quasi raggiunto eh? Vieni, entra, così sistemiamo la tua roba. –disse lei afferrando le mie valige, io tenni solo un paio di cose per me, per evitare che finissero in mano sua. La custodia della chitarra era ben allacciata alla mia spalla, il peso dei cartoni pieni di libri e fotografie mi stava segando le braccia ma non lo feci vedere. Mamma mi accompagnò in quella che in principio doveva essere la mia stanza, ma mi trovai davanti ad una stanza completamente bianca, la base di un letto a una piazza e mezzo senza materasso e un armadio con ante scorrevoli, bianco anche quello, e nient’altro.

–Ho pensato che sarebbe stato meglio arredarla insieme. Così la facciamo come piace a te. – trillò mamma tutta felice. Forse dopo questo la mia simpatia per lei cominciò a risalire.

–Okay. – acconsentii io. La mamma sfoderò un sorrisone da orecchio a orecchio.

–Andiamo allora, domani si parte, non abbiamo tempo da perdere. –

******

I giorni successivi li passai tutti a girare per New York, alla ricerca di mobili, tinte, poster, quadri, cornici, materassi, lenzuola e chi più ne ha più ne metta. Dovevo un merito alla mamma, era un ottima consigliera sul campo abbinamento colori, stoffe e tutto quello che riguarda l’arredamento.

Presto la mia camera fu pronta, sul lato destro il letto era finalmente pronto, traboccava di cuscini e la coperta con i fiorellini staccava un po’ da tutto quel bianco. Una tenda a due strati rivestiva la finestra che si trovava esattamente sopra il letto. L’armadio era stato riempito di vestiti, vecchi e nuovi, e di tutto il necessario. Accanto alla porta un cassettone rigorosamente bianco conteneva i vestiti più invernali come maglioni e felpe e sul ripiano alloggiava una TV con My Sky tutto compreso. Sul lato sinistro invece una libreria in legno chiaro dominava la parete. Era un po’ vuota perché non avevo portato moltissimi libri con me, ma le saghe come Percy Jackson, Hunger Games, Harry Potter e Divergent spiccavano in primo piano proprio sopra il vano scrivania.

Mi gettai sul letto sfinita quando mamma entrò con dei pacchi: due incartati come se fossero regali e uno vecchio e consunto.

–Che cos’è questa roba? – chiesi io incuriosita.

–Prendili come regali che non ti ho fatto per sette anni. – disse passandomi il pacco consunto.

Dentro c’erano delle vecchie foto con tutta la famiglia riunita, che corsi ad infilare sotto il ripiano di vetro che copriva la scrivania, una polaroid originale istantanea e una Canon Reflex nuovissima.

–Mamma ma….– tentai di spiccicare parola però fui sopraffatta dall’emozione. –Tua nonna mi ha detto che ti piace fare fotografia.– mi spiegò mamma –E allora ho pensato che avevi bisogno di strumenti adatti. –

Quando scartai il secondo pacco mi ritrovai un portatile bianco della Apple, conosciutissimo per gli ottimi programmi fotografici.

–Non dovevi, non dovevi assolutamente.– dissi io guardando il computer come se potesse sparire da un momento all’altro.

–Certo che dovevo. Ma non ti commuovere ora, perché l’ultimo  è il più importante. – disse la mamma passandomi l’ultimo.

Una bellissima chitarra elettrica con parti in plastica bianca e intarsi in mogano brillava come nuova davanti ai miei occhi.

–Lui voleva che la tenessi tu.– disse mamma porgendomi un fazzoletto dato che involontariamente avevo cominciato a piangere a dirotto.

La cena fu un mortorio e dopo questa mi rintanai in camera mia a guardare per l’ennesima volta American Hustle , quando mamma entrò per augurarmi la buona notte le dissi che tutto questo era troppo per me, la stanza, la TV, c’era qualcosa di troppo lì, in quel mondo perfetto. Mamma mi disse che io mi meritavo tutto questo, che stavo affrontando la situazione nel modo più giusto.

Prima di addormentarmi un pensiero mi balenò in testa. Possibile che la cosa di troppo fossi io?

Io non ho un fratelloDove le storie prendono vita. Scoprilo ora