Storia di un uomo che non esiste

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Immagina la sala di un teatro.
Immaginala vuota.
Immaginati sul palco, da solo, con i riflettori puntati su di te.
All’improvviso noti una figura seduta da sola nel teatro, proprio lì, in prima fila. Quella figura è te stesso, che con le braccia conserte rimane in silenzio a guardare la tua recita.
La sua espressione non cambia, il suo sguardo non si sposta mai da te, non sorride, non rimane sorpreso, non sussulta, non applaude.
Stai recitando per lui, eppure lui non reagisce. Stai recitando per te stesso, eppure non reagisci.
Non ti piace quello che stai guardando.
Chiudi gli occhi, e quando li riapri lui non c’è più.
Tu non ci sei più.
Attorno a te ci sono solamente le sedie della sala, con i loro sedili in pelle immacolati.
Per quella recita hai lavorato duro, ti sei impegnato, ti sei ripromesso di portarla a termine anche se non hai mai saputo recitare. E lo hai fatto, ma nessuno ti applaude.
Cerchi di convincerti che hai fatto un buon lavoro, cerchi di convincerti che non hai fatto tutto questo per nulla, che lo hai fatto per qualcuno. Lo hai fatto per qualcuno, ma quella sala è vuota, e l’unica persona presente durante la recita eri proprio tu.
E te ne sei andato.
E non ti è rimasto più nessuno.

Ho ventitré anni e mi ritrovo puntualmente davanti allo specchio a guardare negli occhi il mio riflesso.
A un certo punto devo distogliere lo sguardo, non ce la faccio.
In quegli occhi non vedo altro che il nulla, il vuoto. Attorno a essi delle lacrime.
Quando mi guardo allo specchio penso sempre a quella che è stata la mia vita fino a quel punto. Penso sempre a tutte le decisioni sbagliate che ho preso, a tutte quelle decisioni che ho sbagliato a non prendere e a tutte quelle di cui ancora temo le possibili conseguenze.
Hanno tutte una cosa in comune: non mi hanno lasciato niente se non delusione, invidia, rabbia, disgusto.
Vuoto.
Poi penso alle persone a me care, ai loro problemi che mi sono offerto di ascoltare, problemi che i miei a confronto non sono nient’altro che barzellette.
Penso a tutti i sentimenti di cui sento raccontare; tutte le storie di relazioni finite male, mai iniziate o in corso; tutti i problemi dovuti alla depressione e al mondo che non gira mai come deve.
I miei problemi, a confronto, non sono problemi.
Ho però un tarlo nella testa. Una sensazione fastidiosa, costante e pungente come l’acufene con cui convivo da ormai due anni. I miei problemi non sono problemi se li paragono ai veri problemi delle persone. Ma io sto male.
Io sto male, ma mi sento in colpa a sentirmi male per problemi che paragonati a quelli veri, problemi non sono.
A quelli “veri”, come se i miei problemi non fossero veri.
Guardo i problemi degli altri e lo faccio con invidia, perché i loro problemi sono generati da eventi, sensazioni, emozioni che io non ho mai provato.
I loro problemi sono conseguenze, sono successioni, sono figli del momento.
I miei problemi sono solamente una delle tante chiazze senza colore del mio essere vuoto.
E quando sei vuoto e solo, i tuoi problemi iniziano ad accumularsi. Si accumulano e formano una pila di merda, che per quanto grande possa diventare, verrà sempre messa in ombra dalla merda di qualcun altro.

Ovunque io guardi, vedo persone che hanno altre persone. Vedo persone costruire e rompere relazioni, vedo persone inciampare per sbaglio in quella che diventerà la relazione della loro vita, vedo persone che per un motivo o per un altro non sono sole.
E quando queste persone mi parlano di come non siano sole, di com’è non essere soli, di com’è facile per loro trovare qualcuno che li salvi dalla solitudine, io mi sento fuori luogo. Io mi sento come se questo mondo non fosse il posto per me.
E più vado a scavare nel profondo, più mi accorgo che è sempre stato così. In un mondo di variabili in cui tutti hanno o hanno avuto qualcuno, io sono rimasto l’unica costante.
Sono rimasto solo.
Quando gli altri mi parlano delle loro relazioni, costringendomi a sorridere nonostante io non possa capire di cosa stiano parlando, quando mi parlano dei loro problemi di cui non me ne frega un cazzo, ma che finisco per renderli più importanti di quelli che ho io. E ogni volta che mi sento dire che è colpa mia, che sono io che non cerco le occasioni, che non le colgo o che semplicemente devo attendere il momento giusto, io vorrei vedere il mondo bruciare.
Io vorrei vedere le persone che dicono di invidiare i miei problemi solamente provare a convivere con la merda di essere vuoti, provare a cercare disperatamente qualcosa di interessante in sé stessi per potersi anche solo aggrappare a uno stupido pretesto per non rimanere da solo. Vorrei vedere queste persone cercare di uscire dalla solitudine avendo paura di non riuscirci e finire a rifugiarsi nuovamente in essa, senza mai riuscire a provare un sentimento o un qualcosa che non sia solitudine o paura.

Nonostante il mio vuoto sono riuscito a trovare una passione, un qualcosa che mi fa sentire vivo e che mi distrae dalla merda che mi passa per la testa: la scrittura.
Ma questa passione, al posto che colmare quel vuoto, mi ha fatto rendere conto di quanto io sia solo e di quanto questa solitudine mi abbia stancato.
Ho iniziato con delle aspettative che presto sono diventate delusioni. Delusioni che ho cercato di eliminare non facendo altro che nasconderle in fondo al mio nulla, convincendomi di star scrivendo per me stesso.
Ma queste delusioni continuano a tornare a galla, e anche io ho abbandonato la sala del teatro in cui sto recitando la mia passione.
Ed eccomi di nuovo lì, di fronte allo specchio, con gli occhi scavati dalle occhiaie e rossi dalle lacrime che ho soppresso, a chiedermi quanta altra merda dovrò accumulare per poter riempire quel vuoto del cazzo che mi tormenta da dieci anni.

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