Capitolo 1: La cripta (Calipso)

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Una brezza leggera accarezza i mei capelli. Ho il fiato corto. Mi sento soffocare. Una voce flebile mi grida nell'orecchio: «Svegliati, Calipso, è giunto il momento di lasciare il Paese delle Meraviglie».

Sbigottita, apro gli occhi. Non capisco. Stavo riposando, credo. Eppure, non ho nessun ricordo. Nessun sogno, nessuna sensazione, nessuna percezione. Le mie dita riacquisiscono sensibilità soltanto adesso. Ho il dubbio che nessuno di loro si sia mossa, anche involontariamente, di un solo millimetro in questo lasso di tempo. Che cosa sta succedendo? Di solito, quando qualcuno dorme, il suo corpo dà comunque dei segnali, risponde... Inizia a mancarmi l'aria. Qualcosa non va.

«L'incantesimo si è spezzato, mia cara. Ti avrebbe protetta, sì, ma solo a patto che tu fossi rimasta qui a dormire...Ohhh, mi sembra che il Re avesse ordinato di riferirtelo subito...errore mio. Beh, vedi di aprirti un'uscita da sola, o qualcosa...», sussurra un'altra voce, leziosa, stridula, acuta.

«Il Re?», la interrompo io, mettendomi seduta sulle ginocchia e scrutando il soffitto di foglie intrecciate.

«Ma certo, mia cara. Il re dell'Oltretomba, il sovrano degli Inferi, il signore dell'unica roccaforte che non è ancora crollata. È stato lui, a trovarti, ma ora devi proprio sbrigarti, o...», tenta di spiegarmi con tono più grave una terza voce, più solenne.

Forse so a chi si sta riferendo. Alcune immagini riaffiorano nella mia mente: un inseguimento, mostri, Titani, io che inciampo e la terra che mi rinchiude in una prigione con delle sbarre come radici. Da quanto mi hanno riferito queste anime (devono necessariamente essere spiriti di un qualche tipo, altrimenti perché sarebbero sotto il comando del "sovrano degli Inferi"?), acquisisco un'informazione fondamentale: l'Olimpo è caduto. Se vi fosse stato un altro esito degli scontri, se si fosse verificata un'altra situazione, non avrebbero parlato "dell'unica roccaforte che non è ancora caduta". Dei e semidei sono stati sconfitti probabilmente, ho sopportato questo esilio sottoterra per nulla...

Un turbinio di riflessioni sconvolge ogni singolo punto della mia mente scioccata. Terrorizzata, ancora non del tutto cosciente e con i sensi annebbiati, tento di convincere le radici a ritrarsi. Leggeri, delicati tocchi, quasi carezze sono tutto ciò che posso donargli, mentre lotto per ricacciare le lacrime dentro i miei occhi. Percepisco la paura scuotere le piante, scorrere insieme alla linfa. Sanno che Gea si vendicherà se mi lasceranno uscire: il loro unico compito adesso è quello di uccidermi; sento i mormorii mesti e le punte di rabbia diretti verso le anime: non avrebbero mai dovuto svegliarmi.

Eppure, non oso immaginare quanto sarebbe stato orribile per me continuare questo letargo forzato. Non ho ricordi, impressioni, ma, ora che possiedo la consapevolezza di ciò che è accaduto, l'intero lasso di tempo che separa l'inseguimento da quest'istante si tinge di tinte fosche. L'oscurità all'interno di questa tana non è nulla in confronto alla visione che ho dei miei ultimi anni di vita, che ho trascorso alla stregua di un fantasma, se non peggio, ombra dimenticata tra le ombre, corpo confinato tra il regno dei viventi e quello dei morti.

La mia magia è cresciuta, riesco a percepirlo. Intono qualche nota e riesco quasi a persuadere diverse radici, che si ritirano afflitte, strisciando e gemendo finché non sento svanire la loro esile forma da dietro la mia schiena o accanto ai miei piedi. L'indice destro sfiora qualcosa di soffice e dalle dimensioni piuttosto ridotte. Ho l'impressione che sia legato al mio fianco grazie ad un filo piuttosto spesso. Lascio che quel contenitore si adagi sul palmo della mia mano e lo tasto per cercare di scoprire qualche indizio su ciò che si nasconde al suo interno. Ruoto le dita della mano sinistra e il legaccio piomba a terra inerme. Il lieve tonfo prodotto arriva simultaneamente all'ennesimo avviso da parte del mio corpo che l'aria inizia a mancare...

Devo sbrigarmi, ma so che quello che si trova dentro a quest'involucro può aiutarmi, credo di ricordarlo... Trina di luna, ecco cos'era! L'avevo usata in battaglia per accecare i nemici e ora questa polverina sta tentando di salvarmi la vita seguendo nell'aria i movimenti rotatori dell'indice sinistro. Riesco a vedere in maniera nitida, sopra di me distinguo un tappeto di foglie e radici ed agito decisa entrambe le palme verso di esso, ma ho l'impressione che qualcosa stia agendo in senso contrario, tentando di sopprimermi, di togliermi il respiro... Forse si tratta di un contro-incantesimo, di una qualche maledizione secondaria imposta a protezione di questa sottospecie di cripta, o forse il tempo è trascorso troppo in fretta e io non sono stata in grado di rendermene conto, o...

Mentre il fogliame si dirada e volute scintillanti vengono sospinte verso l'alto dall'aria rarefatta, la mia mente vaga sull'immagine di Percy Jackson e ritorna al giorno in cui gli regalai quella piantina, prima che partisse da Ogigia...ripenso alla promessa non mantenuta dagli dei, a Leo, a Festus, e poi come saette delle immagini baluginano di fronte ai miei occhi: una famiglia seduta sui gradini di una modesta abitazione in riva al mare, un ragazzo di venticinque anni o più che lavora senza sosta circondato da attrezzi e scarti di metallo, intento a costruire sofisticate macchine da guerra... Infine, tutto si dissolve e, mentre la trina di Luna illumina l'ampio varco che sono riuscita ad aprire nel soffitto, ho l'impressione di essere ormai prossima a perdere completamente i sensi, fino a quando...

Un debole fruscio, un'ombra che scivola all'interno della cripta. Da quella che dovrebbe essere la sua mano destra si diparte una forma sottile, che ricalca sotto ogni punto di vista l'aspetto di una lama affilata. Un'altra figura riesce a penetrare nella mia prigione. Ha meno grazia ed emette una quantità di luce accecante, che ha subito il sopravvento sugli aggraziati filamenti argentei che danzano nell'aria.

«Ti avevo detto di restare a casa, Lampadina!». Un tono deciso, netto, il suono dell'acciaio o del ferro che vengono portati via dalla fucina una volta forgiati. Non riesco a rintracciare titubanza in questa voce, soltanto rimpianto, rammarico, un dolore troppo a lungo represso.

«Che dire, non ho resistito». Un sorriso smagliante che parla di estate in ogni singolo segmento di cui si compone. Le parole fuoriescono dalla bocca luccicante in maniera cristallina, prima che delle braccia si avvicinino a me con lievi movimenti rassicuranti, che rendono l'immagine di un contegno pacato. «L'ambrosia che ti sei portato non sarebbe bastata, Nico», spiega voltandosi leggermente verso l'altra figura. Quindi, torna a concentrare tutta la sua attenzione verso di me e mi spinge a mangiare dei quadretti di cioccolato che tiene nel palmo della sua mano. «Prendi, Cal, vedrai che starai meglio».

Forse ho le allucinazioni o magari il cibo che mi è stato offerto non era sufficiente per la mia ripresa, ma d'improvviso una nuova immagine si para di fronte ai miei occhi socchiusi: tutti noi veniamo risucchiati in un vortice di tenebre dotate di vita propria, affamate, terribili, avide di cibo e desiderose soltanto d'inghiottirci. Mentre tutto intorno a me si offusca e ho l'impressione di cadere in un vuoto senza fine per ed ore, una sola immagine riesce a donarmi nuovamente il sorriso, quella di un ragazzo atterrato su Ogigia con delle fiamme ancora accese tra i capelli. Questa figura ha un nome: Leo. Non so dove sia, ma ho un presentimento: se riuscirò a sopravvivere a tutto questo, dovrò andare a cercarlo.

Dieci anni dopoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora