Capitolo 2

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23 Agosto, oggi.

Alessia! L'urlo che sento nella testa fa spalancare i miei occhi che si fissano al soffitto come ogni giorno di questa fottuta esistenza che sono costretto a vivere svegliandomi sudato con il respiro affannato e il cuore impazzito che spero sempre, un giorno, riesca a fracassare la cassa toracica smettendo così di torturarmi. Volto la testa alla sveglia che non imposto dalla morte di Alessia. Sono le due del pomeriggio. Perfetto. Ho finito il turno alle otto di mattina ma con l'arresto effettuato durante la pattuglia ho toccato il letto alle undici, ho dormito praticamente quattro ore. Quattro ore più che sufficienti, visto che dormire è diventato peggio che stare svegli. Prendo l'ennesimo caffè della giornata e accompagnandolo ad un antidolorifico mi preparo per andare in palestra, l'unico posto dove posso realmente sfogare tutta la rabbia repressa che mi trascino dietro da due anni.

Sto preparando giusto la borsa quando arriva un messaggio: è Tommaso.

"Anna cucina da ieri sera, quindi vedi di presentarti questa sera o sarò costretto a trasferirmi nuovamente da te!"

Sorrido alle emoji arrabbiate che aggiunge pensando che la sua minaccia è presso che inutile, non mi darebbe nessun fastidio. Dopo l'incidente, sono stato io a mandarlo via fingendo di non sopportarlo più, ma fosse stato per il mio reale bisogno di avere qualcuno che distraesse la mia mente dal dolore, lo avrei fatto vivere da me a tempo indeterminato. Tommaso Ricci, collega e amico da sempre era rimasto con me per tre mesi dopo la morte di Alessia. Tutti avevano paura che potessi commettere una pazzia. La mia famiglia, i colleghi, gli amici, nessuno si fidava a lasciarmi solo, e fu solo quando smisi di dire ad alta voce quanto odiavo essere vivo che finalmente mi lasciarono libero. Dovevo moltissimo alla mia famiglia, a mia madre soprattutto che non mi aveva mai chiesto di nascondere il dolore. Lei, più di altri capiva perfettamente cosa provassi. Mio padre era morto improvvisamente, come era successo ad Alessia, in un incidente automobilistico, lasciandola sola con tre figli ancora minorenni. Mia madre aveva una forza straordinaria, io non la possedevo, ma lei era convinta del contrario e non faceva altro che ripeterlo...questo mi sfiniva perché la verità era che avevo semplicemente mentito. Detestavo la mia esistenza su questa maledetta terra e potevo mentire alle persone che amavo pur di farli vivere meglio, ma non potevo mentire a me stesso. Dalla morte di Alessia, odio respirare, odio vivere e odio soprattutto sperare, ecco perché dovevo trovare la forza di dire ad Anna di smetterla di organizzare incontri con delle improbabili fidanzate, perché per quanto si prodighi non troverò mai nessuna donna paragonabile ad Alessia.

"Tranquillo, non vi darò buca. Porto un mazzo di fiori?" Lo sto prendendo in giro, non mi sognerei mai di portare fiori all'ennesima sconosciuta.

"Porta solo il tuo culo moscio!" Sorrido alle nuove emoji che chiudono il messaggio e finisco di prepararmi decidendo che andrò con lo scooter, così non sarò costretto a riaccompagnare nessuno a casa.

Una volta a destinazione Ruben è già pronto sul ring con i guantoni infilati. «Quanto sei incazzato oggi?» Scuoto la testa senza rispondere perché sa perfettamente che sono perennemente incazzato. Con un sorrisino spavaldo, spogliandomi della maglia infilo guantoni, casco protettivo, paradenti e salgo sul ring. Ruben fa scontrare i pugni. «Sono carico pivello quindi preparati, stavolta te ne andrai con le ossa rotte». Minaccia prendendo posizione.

Ruben è una di quelle persone che non puoi ritenere un amico. Non vive la tua quotidianità, non conosce nessuno oltre te e non sai nemmeno quando sia il suo compleanno, ma è stato l'unico che è riuscito a tirarmi fuori dalla merda in cui ero sprofondato mostrandomi come gestire la furia che la morte di Alessia aveva portato. L'ho conosciuto una sera, non ricordo quale, mentre come accadeva spesso ero talmente sbronzo da voler attaccare briga con chiunque mi guardasse storto con la speranza che letteralmente mi spedisse nell'aldilà, probabilità quanto meno inesistenti quando scoprivano quale fosse il mio mestiere. Ruben era uno di quei chiunque, però, a differenza degli altri, non se ne andò lanciandomi qualche insulto, me le diede di santa ragione. Senza paura mentre lo istigavo a continuare, nel dolore che infliggevano i suoi colpi, senza rompermi nemmeno un osso, mi sentii di nuovo vivo. Una volta rinvenuto ai lati di un marciapiede lurido, con il volto tumefatto e sporco di sangue, nella tasca della felpa trovai il biglietto da visita di una palestra. Lo rigirai nelle mani e dietro c'era scritto come una manna dal cielo: Se ne vuoi ancora passa a trovarmi. Lo feci, da allora, ogni giorno con i guantoni sulle mani e un caschetto protettivo sulla testa.

Dopo un'ora in cui nessuno dei due si era risparmiato seduto sulla panca, sento finalmente l'unica sensazione che ancora mi permette di andare avanti, muscoli affaticati, cuore a mille pulsazioni al secondo. Tutto quello che lei riusciva a provocare con un bacio ora io riuscivo ad ottenerlo solo dopo una sessione di colpi furiosi.

«Ascolta Edo, questa sera i ragazzi hanno organizzato una cena. Sai, queste menate della palestra. Siamo solo noi ragazzi della boxe». Svuoto la mia bottiglia d'acqua e sospiro per riprendere fiato.

«Mi piacerebbe ma ho già un impegno, se me lo avessi detto prima sarei venuto volentieri». Stare con i ragazzi mi piace e anche se probabilmente sono il più vecchio o il meno adatto, lo avrei scambiato volentieri con la cena imbarazzata che mi attende. Ruben non commenta la mia battuta e alza lo sguardo su di me, uno sguardo che non c'entra niente con la cena.

«C'è qualche problema?» Non lo conosco nel privato ma ci conosciamo da due anni e lo vedo che qualcosa non va, se fosse stato un altro non avrei chiesto nulla ma Ruben meritava rispetto e considerazione se l'era guadagnata nella vita e soprattutto con me.

«Speravo che potessi parlare con Elias, quel ragazzino mi preoccupa». Elias è un sedicenne che da poco si era inserito nel gruppo, finendoci direttamente dal carcere minorile dopo meno di un anno di detenzione per rapina a mano armata. Ruben, come aveva fatto con me, raccoglieva un po' ovunque gli sbandati che gli capitavano a tiro ed Elias era uno di loro.

«Che sta combinando?»

«Suo padre è tornato a casa e non è una bella persona».

«Posso immaginarlo...» La maggior parte dei ragazzi radunati qua dentro ha storie raccapriccianti e situazioni familiari che nemmeno Sigmund Freud riuscirebbe a sbrogliare. Di solito non m'intrometto mai. Tutti sanno che sono un poliziotto e che sono dal lato opposto della barricata. In questo contesto neutrale, per convivere, si era creata una sorta di tacito patto per il quale io non rompevo le palle a loro e loro non rompevano le palle a me, anche se, sapevano bene, compreso Ruben, che se mai avessi pizzicato chiunque di loro a fare qualcosa d'illegale, amici o meno li avrei condotti dentro senza il minimo scrupolo; quindi, era facile intuire che se Ruben stava chiedendo il mio aiuto era perché evidentemente aveva già provato con tutto quello che poteva. «Cosa posso fare?» Porto l'asciugamano sulla testa a tamponare il sudore dai capelli che anche se corti sono fradici.

«Vorrei solo che lo spaventasse di più tornare in carcere che suo padre». So che Elias è un bravo ragazzo e so che non servirà parlargli, ma recuperando la borsa da terra gli poso una mano sulla spalla sudata.

«Proverò a passare dopo cena, altrimenti gli parlerò appena lo vedrò, comunque mandami la posizione». Anche se Ruben cerca di portare tutti sulla retta via come ha fatto con me, entrambi sappiamo che basta un niente per mandare tutto a puttane.

«Grazie...» Con un cenno della testa lo saluto e mentre procedo verso gli spogliatoi ricomincio a pensare che devo assolutamente trovare il modo di dire a Tommaso e Anna che non ne posso più di queste cene!

AMORE SOSPESODove le storie prendono vita. Scoprilo ora