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A RING ; TOWA TEI, pascale borel
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«Oh, così è questa Takayama?»

«Sì, più o meno. Qua siamo in periferia, e quell'insieme di casette laggiù potrebbe essere considerato un villaggio a parte. Non ha neanche un nome vero e proprio.»

Suguru smise di parlare per qualche istante, cercando il mazzo di chiavi che sua zia gli aveva affidato per il weekend: la baita iniziava ormai ad essere vecchiotta, ma nessuno, in famiglia, possedeva il coraggio di venderla o la forza di ristrutturarla.

«Io da piccolo lo chiamavo "Chikimori", questo paese. "Chi" da "chisana", "piccolo"; "ki" da "albero" e "mori" da "foresta". Non ha senso, in realtà, ma ai miei cugini faceva ridere, e questo mi bastava.»

Erano anni ormai che Suguru spendeva almeno un paio di fine settimana estivi a Chikimori, ben intenzionato a prendersi del tempo per sé e a godere dell'aria pulita, delle volpi che sgattaiolavano per il paese e della frutta appena colta. Se quell'anno anche Satoru si fosse aggiunto al suo ritiro solitario, si sarebbe trattato di una pura offerta casuale per avere della compagnia. Nulla di più. Non certo per fargli conoscere i luoghi della sua infanzia che teneva più cari e stretti al suo cuore e di cui di tanto in tanto gli capitava di parlare con la voce carica di nostalgia, no. E nemmeno per fargli vedere le stelle che, se cercate dalla città, si nascondevano schive dietro a una fitta coltre di smog.

«Scommetto che eri adorabile. Lo sei ancora adesso! Vieni qua che ti spupazzo tutto, piccino!»

«E togliti, deficiente, sto cercando di aprire la porta!»

La casa sapeva di chiuso - c'era da aspettarselo. Suguru era ormai l'unico che la visitava, e quando capitava erano ormai trascorsi dodici stantii mesi dalla volta precedente. Una candela mezza consumata, una coperta fatta a mano piegata ordinatamente sul divano, il tatami cosparso da uno spesso velo di polvere. C'erano delle pulizie da fare, ma i due ragazzi non avrebbero impiegato molto tempo. Si trattava pur sempre di uno spazio ristretto, familiare e confortevole. Perfetto per alienarsi dal mondo esterno per qualche giorno.

Se ci si affacciava alla finestra, era possibile vedere le luci della città in lontananza: la musica risuonava ovattata nell'eco del versante montuoso, apparendo soffice come cotone, e le lanterne dei mercatini sfavillavano come lucciole.

«A proposito di lucciole...» mormorò Suguru fra sé e sé, pensieroso. Satoru si avvicinò a lui, forse per chiedergli cosa gli stesse frullando per la testa o forse per avere una scusa per giocare con i suoi capelli, senza però pronunciare parola, preferendo aspettare che continuasse.

«'Toru, te le hai mai viste? Le lucciole, dico. Dal vivo, vicine. Provato a catturarle con le mani...?» non capì se l'ultima frase fosse una domanda o un'affermazione, ma Satoru fece comunque spallucce.

«Viste sì, ma non da vicino. Sai quelle del Jujutsu Tech? Sono poche, ma ci sono, e scappano pure subito.»

«Mh.»

«Perché?»

«Ti andrebbe di vederle, dopo? Tra un paio d'ore dovrebbero uscire allo scoperto, e qua vicino è pieno. Pieno pieno.»

«Certo! Prima ceniamo però, sto schiattando. Abbiamo roba fresca?»

Scoprirono ben presto di non aver nulla di fresco da mangiare. Il frigorifero era vuoto, ovviamente, essendo stato inutilizzato per un anno intero, e le provviste che si erano portati dietro da Tōkyō erano a base di ramen istantaneo e riso precotto. Poco male. E il kotatsu - spento, ovviamente, perché anche se faceva meno caldo che in città, di certo non faceva fresco - che li vedeva rannicchiati vicini a ridere su qualche stupido vine non sembrava affatto turbato.

Le lucciole vibrarono puntuali: tempo che i due ragazzi misero piede fuori dalla baita, d'un tratto il sentiero che avevano percorso appena qualche ora prima si riempì di scintille preziose. Invasero il loro campo visivo, catturando attenzione, occhi e cuore di Satoru, che le ammirava sorpreso ed estasiato, come se si trovasse sotto una pioggia di meteore. Rimase fermo, immobile, con le pupille dilatate che cercavano di adeguarsi alla luce brillante che contrastava il nero della foresta e che non volevano dimenticare un singolo dettaglio. Quasi come se fosse consapevole che due soli occhi non erano sufficienti, e ne desiderasse sei.

Il ronzio appena percettibile delle lucciole faceva compagnia alle stelle appese al cielo, ma Suguru non fece caso né alle une né alle altre: dopotutto, come avrebbe potuto farlo, quando la stella più luminosa di tutte si trovava accanto a lui? Postura all'erta, pronto a percepire la più piccola delle sensazioni, e mani tese al cielo, indecise se tentare di catturare una stella o meno.

Nei suoi si riflettevano le galassie non visibili dalla Terra, e si riempivano delle luminarie della natura. Agli occhi di Suguru, Satoru era diventato luce.

TIME WILL TELL, satosuguDove le storie prendono vita. Scoprilo ora