Vagavo per l'etere tra figure in moto, a incastro l'una con l'altra in un orologio a cucù di cui non vedevo ingranaggi, imprimevano all'aria un ritmo secco come di tamburo di pelle tesa, forse l'unico ingranaggio era la voce di chi lo governava dall'alto, forse solo il mio cuore si udiva diverso nella perfetta cacofonia, forse io ero Dio. O ero solo il Grande Orologiaio.
Vagavo per l'etere solitaria a udire le molle tendersi prima del mezzogiorno, ad attendere lo scatto puntuale come il canto del gallo di legno, che tendeva il collo spezzandosi in mille schegge, una, due, dodici volte nella polvere del Grande Orologio. E nulla pareva mai essere diverso, nella stanza a fianco mio padre dipingeva instancabile. Oltre il portone mia madre scriveva. E io immobile nel cuore camminavo, sapendo già che cosa avrei incontrato.
Avrei incontrato la droga sul tavolo nell'ultima stanza, avrei incontrato lo sciamano seduto dritto al ritmo del ticchettio rollando. Gli occhi si sarebbero fermati, come io fossi entrata nella stanza. E al mio passaggio la stanza si sarebbe mossa e avrebbe girato su se stessa e io mi sarei ritrovata a rivedere la stessa scena, finito il minuto.
Drrrrrin girando i tasti del telefono ticchettavano. Ticchettava la sveglia prima del giramento del cielo sopra la stanza. Picchiava forte il martello sul soffitto. Dum. Dum. Dum. Ogni secondo uno strazio, schegge che si staccavano ma il soffitto non sarebbe crollato. Mio padre dipingeva e mia madre scriveva e lo sciamano nell'ultima stanza girava le foglie e il martello teneva il ritmo come l'argano di una petroliera che scende, gli inferi dall'alto tenevano il ritmo nella penombra di polvere, si abbatteva il martello sulle nostre teste per farci tenere il tempo nel valzer prima della nostra ora, dum, dum, dum.
Vagava per l'etere un'anima persa come la mia, si intarsiava tra le statue in moto perpetuo, si guardava intorno cercando qualcosa per cui spaventarsi e trovò me. Mi prese per mano e mi narrò gli inferni del legno che non brucia, della nostra condanna d'esser rami verdi tra statue di legno, mi cullò con la maledizione del minuto che passa e della stanza che gira e del nulla che pare riappropriarsi della nostra mente, scaduto il giro di giostra.
Tentò di spaventarmi quando mi disse di essere Dio e anche io ero Dio perché tutto conoscevamo, a memoria sapevamo e nulla poteva più darci emozioni. Sapeva anche lui che mio padre dipingeva, e mia madre, e lo sciamano, e il mio stesso ritmo cacofonico nella disarmonia delle parti cantava la sua mente. Baciai l'amore della mia vita di ombre e udii il ritmo del martello picchiare nel suo cuore, il gallo cantò squarciandosi di schegge il collo, la stanza girò e io stavo baciando uno specchio, mentre esplodeva il battito del mio cuore allo stesso ritmo di tutto l'universo.
Non ero nulla di diverso, lui non era nulla di diverso. Vagavo nell'etere e non mi scontravo con le altre statue dell'orologio, perché i miei piedi seguivano il loro stesso ingranaggio. E mia madre e mio padre e lo sciamano rabbrividivano, davanti alla prevedibilità del mio perpetuo passaggio.
