MALINCONIA

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Sabina entrò dal portone di ingresso
«Sono tornata!» urlò, facendosi strada verso la cucina «Che ti va di mangiare?» continuò, con lo stesso tono, mentre infilava le dita sotto il getto d'acqua. Con vigore grattò via l'esterno dai suoi palmi e fece del dorso delle sue mani lo strofinatoio di un panno invisibile che profumava di casa.
Il tavolo di legno marrone era ancora fermo lì, gli angoli della stanza le parevano uguali, i centimetri che separavano il piano della cucina dal suo ombelico sempre gli stessi, la crepa sulla terza piastrella del paraschizzi che, con il tempo, le sembrava avere assunto la forma di un cuore, continuava ad assomigliare a se stessa. Silenzio, dopo che l'acqua aveva terminato di scendere giù nello scarico. Qualcosa nell'aria era cambiato. «Marina! Mi hai sentita? Che ti va di mangiare?» Silenzio.
Sabria avvicinò le sopracciglia.
Sospirò e si avviò verso la camera da letto. Vedeva uno spiraglio di bianco  tra la porta e lo stipite, un rettangolo lungo e stretto di luce.
Appoggiò la mano sulla maniglia. Freddo metallico e, poi, calore.
Marina distesa, mezza nuda e mezza vestita delle ombre che il lenzuolo gettava sulla sua pelle. Nell'aria il suo profumo e l'odore di tabacco. Dormiva con la guancia destra appoggiata al cuscino.
Sabina si avvicinò, con le piante dei piedi che sussurravano al parquet di non fare troppo rumore. Le si sedette accanto e le parve che la fame le fosse passata, le sembrò di non avere più sete: per un istante, pensò che non avrebbe mai più dovuto sfamarsi d'altro se non d'amore, dissetarsi d'altro se non di luce.
Marina mosse piano le labbra, Sabina le spostò i capelli dal volto con una carezza.
«Sei tornata. Che ti va di mangiare?» disse, piano, con un filo di saliva sulla punta della lingua.
Sabina sorrise. «Ci penso io... » le rispose.

L'acidità dei pomodori le pizzicava la pelle, la lama del coltello brillava e, poi, tutto d'un tratto si infilava nella polpa e ne riemergeva viscida e bagnata di sangue. Sentiva che c'era qualcosa di primordiale in quello che stava facendo, qualcosa di materno: mangiare e sfamare.
Le braccia di Marina le avvolsero i fianchi. «Grazie... » sussurrò alla sua nuca. Sabina si voltò, sorrise, le chiese se fosse stanca, se avesse fame, se l'avesse sognata, cosa avesse intenzione di fare quel pomeriggio, se avesse davvero smesso di fumare.

«Mi sei mancata.» disse Marina. Abbassò gli occhi sul piatto macchiato di rosso. «Anche tu mi sei mancata.» rispose.
«Stai bene?», Marina annuì e sentì caldo e freddo assieme. Sabina le strinse la mano più forte, le parve di toccare la menzogna con le dita, con le labbra, con tutta la pelle del suo corpo.
«Marina nun mentire. C'ho contato tutte le tu' ciglia, so quanto distano le tu' clavicole l'una dall'altra, 'a profondità dei tu' respiri, so leggere le tu' impronte sul pavimento, er modo in cui le tu' rughe s'increspano. Marì, che c'hai?»
Marina si coprì il volto.
«Sei una cretina. Ed io, se possibile, lo sono almeno il doppio di te.»
«Marì...» Sabina si sporse verso Marina e le prese il mento con entrambe le mani.
«Sei una cretina, perché io non riesco nemmeno a concepire la metà dell'amore che tu riesci ad infilare all'interno di una frase che, poi, fai uscire dalla tua bocca come se fossi una bambina.» Fece una pausa «Sono una cretina perché, dopo quindici anni, credo ancora di poterti nascondere qualcosa.» a Sabina venne da ridere, venne da mangiale le labbra.
«Il fatto è, Sabina, che non so nemmeno io cosa ci sia che non va. Cosa non funzioni in me.»
Sabina la attirò a sé e la fece sedere sulle sue cosce, e le fece appoggiare la testa sul suo seno, e le fece da madre per quasi un pomeriggio intero mentre Marina piangeva e si stringeva al suo petto, con il ventre gonfio di dolore.

«So' così contenta amore mio, de vedè 'ste lacrime. So' così dolci che quasi le potrei bere. E, allo stesso tempo, so' così arrabbiata co' te, che ti spingi sempre ar limite prima de lasciarti andare.» Sabina sospirò e Marina sentì quell'aria farsi spazio nel petto di Sabina, ad ovattarle il cuore.
«Si chiama malinconia. Ti giunge all'orecchio solo quando attorno c'è silenzio.» Marina si asciugò le lacrime con un lembo di cotone. «È settembre anche per te, amore mio...» Sabina continuò, quasi ridendo.
La testa di Marina pareva rotolare su se stessa, sul terreno scosceso di quella nuova scoperta: poteva sentire il suo animo parlare più forte, poteva scegliere di ascoltarlo senza il timore di crollare, sicura che la braccia di Sabina l'avrebbero raccolta ovunque fosse caduta.
Nelle due ore trascorse sul pavimento della cucina non si erano dette quasi nulla: non ce n'era mai stato bisogno.
«Tu me fai paura. Me fai paura sempre. Quanno lavori, perché lavori troppo. Quanno ti riposi perché nun ci sei abituata. Nun sei abituata a sentirti, perché stai sempre in mezzo ar rumore delle cose che hai da fa' e a quello delle cose che vorresti fa'!»,
«Hai ragione Sabina, hai sempre ragione...» ammise Marina guardandola negli occhi.
«Non ho sempre ragione Marì. Nun c'ho sempre ragione, c'ho ragione solo quanno si parla de te!» Sabina rise, mordendosi le labbra, non mollando la presa nemmeno un secondo.
Si sentì piena di una forza che le pareva di non aver mai conosciuto, che non le apparteneva se non quando lei e Marina respiravano la stessa aria: allora potevano diventare una cosa sola, scambiare le parti, rovesciare la narrazione, giocare ad entrare l'una nell'altra.
«Non mi hai ancora risposto...» sussurrò Sabina baciando lo zigomo di Marina. «Cosa vuoi sapere?» Chiese l'altra. «Hai davvero smesso di fumare?» Marina si mise seduta, piantando i palmi delle mani sul pavimento, il volto rivolto al soffitto: «Due sigarette al giorno. Una dopo pranzo, una dopo cena...» Marina rise, Sabina fece lo stesso «Bugiarda!» e la baciò sulle labbra, che sapevano di fumo, e di sale, e d'amore.

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