L'aspetto ingannevole delle cose

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Aprì le palpebre

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Aprì le palpebre. Erano pesanti e gli ci volle uno sforzo enorme. Si massaggiò le tempie che gli martellavano. "Cristo, che mal di testa!" pensò. Osservò le mani; dovevano essere imbrattate di sangue, invece erano immacolate.

Il suo sguardo venne catturato dall'angolo dove si trovava il corpo, che non c'era più.

"Dove diavolo è finito?" realizzò incredulo.

Balzò in piedi.

Disorientato, si guardò intorno.

Il temporale era cessato e un raggio di sole entrava dalla finestra.

Questa volta il ricordo arrivò; con prepotenza invase la sua mente.

Un tavolo da gioco, una luce soffusa, facce concentrate con occhi spiritati che guardavano tutti la medesima cosa: due dadi, uno rosso e uno nero, ammantati di una sorta di regalità, i cui puntini sembravano brillassero di luce propria. Su quel bancone si decideva il destino di ognuno di loro. Avvertiva l'odore di salsedine, se chiudeva gli occhi sentiva il rumore delle onde che si infrangevano sugli scogli. Avrebbe voluto tuffarcisi dentro a quel mare, per annegare le sue sofferenze. Perché la sua mente era piena di buchi?

Dunque era lui quello con le mani sui riccioli neri, incollati alla fronte corrucciata, dove goccioline di sudore microscopiche si irradiavano.

«Field Bet», pronunciò con fare deciso. L'azzardo ce l'aveva nelle vene. Un vizio che si era tramandato nella sua famiglia di padre in figlio. Il destino di un uomo può essere racchiuso in un dado? Mere combinazioni, infinite possibilità, in quei due poliedri era racchiuso il mistero dell'universo. La magia dei numeri, dell'infinito. Quale sarebbe stato il suo numero fortunato? Il suo giorno di nascita o il giorno in cui aveva conosciuto Eleonora?

Gli era sembrata l'unica via d'uscita imbarcarsi sulla "Temperanza". Giorni e giorni sotto al sole, a pulire, a levare e togliere gli ormeggi. Le funi dure gli scorticavano la pelle.

I suoi compagni erano marinai di ogni sorta, una masnada di uomini rudi, avvezzi al gioco e al rum.

Uno di loro allungò il braccio, dove si intravedeva una cicatrice.

«Hard way», rispose.

La fortuna era una dea bendata, che decideva per conto suo.

Infatti cominciò a girare a suo sfavore. Intanto, il fervore aumentava tra quegli uomini temprati dal sole. Si passò la lingua sulle labbra, la gola era un fuoco. La tensione gli stava facendo contrarre tutti i muscoli. Piantò i suoi occhi verdi in quelli del vecchio marinaio di fronte a lui. Erano del colore ambrato del miele, con pagliuzze dorate. Fu imprigionato dalla luce che irradiavano, una fiamma di furbizia li attraversò, come a dire che lui era il più scaltro giocatore e che gliel'avrebbe fatta sotto il naso.

«Diffida degli occhi del tuo avversario», gli aveva detto uno che bazzicava sulla nave e che le regole le conosceva come l'Ave Maria.

E aveva ragione. Meglio studiare il linguaggio del corpo. Quello non mentiva mai.

Prese i dadi, esercitò una leggera pressione, sentì il calore che sprigionandosi dalla sua mano, si trasmetteva ai due poliedri.

I dadi rotolarono, il tempo sembrò bloccarsi un attimo, per poi riprendere a scorrere.

Sei più tre.

Sommessi brontolii di disapprovazione e protesta precedettero sonore bestemmie e colpi sul tavolo da parte dei perdenti.

"Fantastico, ho vinto! Il dado è tratto", esultò.

"Fantastico, ho vinto! Il dado è tratto", esultò

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