new york

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La pioggia batteva insistentemente sul tettuccio del taxi giallo mais che mi stava portando dall'aeroporto alla fermata della metropolitana più vicina. Ero da poco atterrata al JFK Airport di New York per un viaggio di lavoro, anche se il fascino della grande mela mi stava già conquistando, distraendomi dal vero motivo della mia trasferta. La voce roca del tassista mi riportò alla realtà, annunciandomi che eravamo arrivati alla 6th avenue, dove avrei preso la linea arancione della metro.
Pagai profumatamente l'uomo sulla sessantina che mi aveva portata lì e camminai rapidamente giù per le scale della stazione. Non ero particolarmente in ritardo, anzi, ero sicura che la mia stanza all'Hyatt Place Hotel non fosse ancora pronta, ma per una donna in carriera come me la velocità era un'abitudine. Dato il poco preavviso, fu una vera fortuna trovare ancora un biglietto per la metro delle 13:15, seppur ricevendo varie occhiatacce dal bigliettaio, che prima del mio arrivo stava per chiudere il botteghino in vista della pausa.
Quando arrivai al binario, la metro era già lì, così corsi dentro e mi sedetti al primo posto libero che trovai, una seduta segnata dai graffiti e dalle iniziali incise con un paio di forbici. Non appena la metro fu partita, provai a contattare il mio capo tramite telefono, ma mi accorsi che le tacche della rete stavano vertiginosamente diminuendo, quindi lasciai perdere e rimisi il cellulare in borsa.
A quel punto non mi restava molto da fare se non guardarmi intorno e cercare di comprendere un po' di più la varietà della popolazione newyorkese. Lavorando ormai da anni come capo reparto e supervisore in una multinazionale, carpire i dettagli era diventata un po' la mia seconda professione, per cui non faticai a individuare dei soggetti che potessero catturare la mia attenzione.
La prima persona che notai fu un ragazzo di circa venti anni, la cui figura poco elevata entrava in contrasto con gli arti sottili, probabilmente frutto di una dieta molto povera. Sedeva ingobbito sul posto di fronte al mio, l'espressione vuota e gli occhi spenti. Aveva la pelle pallida, per cui le borse violacee che dimoravano sotto ai suoi occhi scuri erano ancora più visibili. Era vestito interamente di nero, se non per la giacchetta beige da aviatore che portava sopra alla t-shirt. Si rigirava tra le dita un anello a forma di teschio, quasi fosse l'oggetto più prezioso del mondo.
Di fianco a lui sedeva, per ironia della sorte, il suo esatto opposto: il ragazzo alto che gli si trovava accanto sembrava avere forse un paio d'anni in più del più basso, ma la sua pelle liscia e abbronzata lo ringiovaniva, facendoli sembrare coetanei. Aveva i capelli color del grano e gli occhi che riflettevano il cielo, incorniciati da un'espressione vispa e attenta. Dallo zaino semiaperto ai suoi piedi si intravedeva un camice bianco da ospedale, per cui presupposi che fosse uno studente della facoltà di medicina; magari era appena uscito dall'ospedale e si stava dirigendo a Long Island per rilassarsi, dato il suo abbigliamento da spiaggia: portava una camicia hawaiana, dei pantaloncini color cachi e un paio di infradito. Sentii che canticchiava qualcosa fra se' e se', mentre con una mano giocava con i folti capelli del più piccolo. Pensai che fossero veramente una coppia strana, ma non ebbi tempo di rifletterci su, perché non appena le porte della metro si aprirono alla stazione successiva, i due guizzarono fuori in un attimo.
Al loro posto entrò una ragazza minuta, dalla pelle color cioccolato. Portava una maglietta viola e un pantalone grigio, e questo mi fece pensare che non badasse molto allo stile, o che non fosse abituata ad uscire e a farsi vedere dalla gente. I suoi occhi dorati scrutavano con curiosità e un pizzico di diffidenza le persone attorno a lei. Si muoveva con incertezza, come se fosse la prima volta che si trovava su una metro. In breve tempo si ritrovò accerchiata e compressa tra le decine di lavoratori che occupavano il mezzo all'ora di punta, e la sua figura iniziò a confondersi tra gli orologi e le ventiquattr'ore che cercavano freneticamente una maniglia a cui appoggiarsi.
Guardando con disattenzione quel mucchio di persone, rimasi alquanto sorpresa nel vedere una ragazza che pareva essere la mia gemella perduta. Quando la notai, fu come guardarsi allo specchio: era alta, forse anche più di me, e gli eleganti tacchi a spillo di certo non aiutavano. Quelli, insieme al completo grigio da lavoro, lo sguardo fermo e la postura impettita, le conferivano un'aria potente che la portava a spiccare in mezzo a tutta quella gente disperata, stanca e visibilmente infelice; lei, invece, pareva fiera, sembrava essere completamente a suo agio in quel tailleur stretto e perfettamente stirato. Tutto di lei sembrava essere perfetto, a partire dai capelli neri come la cenere, raccolti in una coda alta senza neanche un ciuffo fuori posto, al filo di eye-liner accuratamente posto a incorniciare i suoi occhi, anch'essi scuri. Controllava di continuo il telefono, e pensai che magari anche lei era frustrata dal fatto che la linea non fosse delle migliori nelle gallerie sotterranee di New York. Quando tornammo in superficie, un paio di lavoratori si distaccarono dal mucchio per il troppo caldo, e la ragazzina bassa che avevo visto prima rispuntò di fronte ai miei occhi, con la fronte madida di sudore e i capelli, folti e ricci, increspati come fossero appena stati esposti a una tempesta tropicale. La ragazza più alta la guardò con un'aria di sufficienza, prima di dirigersi elegantemente alle porte della metro una volta arrivati alla stazione. Stranamente, passato un minuto buono, le porte non si erano ancora chiuse. La gente all'interno della metropolitana cominciò ad agitarsi, cosa che mi fece rendere conto del ritmo di vita frenetico che i newyorkesi erano abituati a seguire. Pochi secondi dopo, un ragazzo entrò di corsa nella metro, e prontamente rassicurò i passeggeri, spiegando loro che stavano riscontrando dei problemi con i sensori di comando e che avrebbero risolto al più presto. Mi soffermai ad osservarlo mentre alcune delle persone sedute nei posti accanto al mio gli ponevano le domande più disparate, probabilmente per essere tranquillizzate: aveva i capelli castani, ricci e leggermente sporchi di polvere, come anche il suo viso. Ipotizzai che si occupasse delle macchine che contribuivano al corretto funzionamento della metro, dato anche il suo abbigliamento trasandato, composto da un paio di jeans scuri e una camicia bianca, probabilmente molto vecchia. I suoi occhi color nocciola si muovevano rapidamente, così come le sue dita, che non riusciva a tenere ferme. Notai che continuava a picchiettarle sulla gamba sinistra con una precisa sequenza, quasi come se cercasse di comunicare qualcosa in codice morse. Vidi che sorrideva nervosamente e faceva qualche battuta per smorzare la tensione che si era venuta a creare dopo aver detto che ci sarebbe voluto qualche minuto per risolvere il problema. Pensai che non poteva avere più di diciotto anni, cosa che mi stranì parecchio: un ragazzo così giovane doveva per forza essere molto appassionato di macchinari per fare un lavoro del genere. Le porte si chiusero dietro di lui, e quando se ne accorse imprecò tra i denti. Una signora sull'ottantina, seduta accanto a lui, lo guardò sconvolta, e si sistemò il capellino a fiori che portava borbottando qualcosa, probabilmente su quanto la nuova generazione fosse rovinata. Il mio sguardo ritornò sulla ragazza minuta, che ora era seduta di fronte a me e tentava invano di raccogliersi i capelli in una coda, visibilmente in imbarazzo. Alla fine sbuffò e lasciò che la folta chioma le ricadesse svogliatamente sulle spalle. Prese a giocare con l'elastico, forse per passare il tempo, forse per non dover incontrare gli sguardi curiosi delle persone. Mi accorsi che il ragazzo dai ricci scuri si stava guardando intorno da ormai cinque minuti buoni, cercando con lo sguardo qualcosa che non riuscivo a identificare, e forse non ci riusciva neppure lui.
Diedi una rapida occhiata al tabellone appeso accanto a uno dei finestrini e vidi che la prossima fermata era la mia, Coney Island. Osservai tutti i passeggeri per imprimere i loro volti nella mia mente: ricordai i due ragazzi che avevo visto prima, così diversi, asimmetrici, come un quadrato composto da tre lati e mezzo. Rividi nella mia mente la mia copia imperfetta, troppo perfetta per essere davvero mia, e rivolsi un fugace sguardo alla ragazza dagli occhi irti di spine dorate. Mi soffermai per l'ultima volta sul viso del ragazzo la cui espressione rivelava fiamme blu, contrasto fra la curiosità e la costante sensazione di essere fuori posto.
Le porte della metropolitana si aprirono un'ultima volta sui palazzi di New York, e tutto, in quel luogo, rimase per me statico.

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