Mi sono addormentato sognandoti e mi sono svegliato pensandoti.
Poi ha bussato il mondo.
Il mondo crudele, infame, sporco, maleodorante, che sa di quegli avanzi rancidi lasciati in fondo al frigo e volutamente ignorati per settimane che un giorno, dal nulla, tornano a chiederti il conto. Ti dicono che è colpa tua, è colpa tua se si sono ridotti in quello stato, è colpa tua se li hai trascurati e adesso sei costretto a guardarli e riconoscerli. Sono i tuoi avanzi, in fondo. Quanto ancora puoi fingere che non ti riguardino?
E questo mondo ammuffito ti chiama, intona il suo canto da sirena strozzata, che non incanterebbe nemmeno un sordo, eppure sei costretto ad ascoltare. Sei costretto a ricordare. Che la merda in cui sei immerso è anche la tua e allora cosa c'è da schifarsi tanto? Che fai, li butti quegli avanzi? Ti aiuta il mondo a ingoiarli a forza. Puoi urlare e piangere e ringhiare e tapparti occhi, naso e orecchie, ma questo mondo bastardo troverà sempre un modo per ficcarti in gola l'unica cosa di cui, in quel momento, non avresti alcun bisogno.
E allora mi aggrappo alla tua immagine come un gatto randagio all'ultimo ramo dell'albero che lo divide dal precipizio. Conficco le unghie in quel pensiero, che sa di te, di noi, di vaniglia e cioccolato e latte di mandorla bevuto in fretta alle 4 di un pomeriggio infuocato, come potesse lenire di poco il fuoco che ci siamo trovati dentro; una fiamma alta, altissima che crepita e ondeggia, che illumina e scalda, che sa di pelle tiepida e mani fredde e corpi fusi.
Che sapore ha un corpo? Spesso possiamo conoscere quello della pelle, se c'è abbastanza fiducia da permetterci di leccarle ogni ferita, o quello della lingua, se c'è abbastanza comunicazione da poterci cibare di bocche e sussurri. Ma il corpo, nella sua interezza, di cosa sa? Quando penso al tuo, sento aumentare la saliva e lo stomaco scavarsi come a chiedere di essere riempito da qualcosa che lo renda sazio e famelico al tempo stesso, di te. Il tuo corpo mi fa piombare nel limbo tremendo dell'appagamento della mancanza. Io voglio riempirmi di te che mi manchi.
E mi manchi come qualcosa che mi è stato strappato via e lascia un vuoto che poi anche se me la restituissero, non potrei mai incastrarla come prima. Perché più manchi più il baratro si allarga e cresce e cresce e sta per risucchiare anche me. E allora centuplicati, amore mio, moltiplicati, clonati, ripetiti all'infinito nel tuo modo originale che è l'antitesi perfetta della replicazione. Cresci e svetta, su questa terra povera e misera, sulle brutture di un mondo che qui continua imperterrito a prendermi a calci e sputi in faccia; fatti tu immensità e inglobami.
Voglio morirci dentro di te, sciogliermi come l'ultimo fiocco di neve all'affacciarsi di una timida primavera, ma non sui fiori o sui tetti di case che più sono piene più mi appaiono vuote, voglio sciogliermi sulla tua lingua, voglio che mi assimili. Voglio scomparire. Essere la patina opaca che ti avvolge e ti preserva, come si fa con certi dolci che non devono contaminarsi a contatto con l'aria. Sarò una seconda pelle e ti darò fiato e prenderò io la cattiveria del mondo al posto tuo che a me già ne ha data tanta e se ancora non so difendermi che almeno possa difendere te.
Ho sempre pensato che l'unica e vera testimonianza di amore sia quella di essere pronti a farsi divorare dall'altro. Che sia emotivamente, psicologicamente o carnalmente, poco importa. Da bambino lessi del disastro aereo avvenuto sulle Ande, che costrinse i sopravvissuti a cibarsi di carne umana per sopravvivere al freddo e da allora una domanda continua a ronzarmi in testa ogni volta che sento di legarmi profondamente a qualcuno. Lo amo a tal punto da essere disposto, in caso di estrema necessità, a farmi mangiare pur di salvargli la vita?
Fanno sempre tutti una gran pubblicità dell'elargizione di amore, regali e soldi. I più arditi giurano sull'eternità, i più romantici sulla vita, i più pragmatici sulla fedeltà. Ma io continuo a credere che donare la vita sia diverso dal donare la propria carne. Ed io è questa che ti darei. Sto bestemmiando? Forse. In fondo l'unico vero atto di amore presente nella Bibbia è il sacrificio di Cristo, del suo corpo e del suo sangue.
Penso alla mia famiglia e penso che se servisse a qualcosa avrei già in mano il coltello per vivisezionarmi da solo. Tranci di me serviti su piatti d'oro. Rosso e oro, un perfetto accostamento cromatico in stile natalizio e un vaffanculo a chi mi imputa di non amare le Feste comandate. Ma un sacrificio che non restituisce qualcosa è solo un gesto vano e vanaglorioso, perciò non ho nulla da poter dire e nulla da poter fare per migliorare le cose.
Perché il dolore che leggi sul corpo di chi ami è più affilato, più letale e più intollerabile di qualsiasi dolore possa mai sentire sulla tua stessa pelle. È altro da te ed è in te al tempo stesso. È un dolore che non ti appartiene ma al quale non puoi togliere gli occhi di dosso nemmeno per un istante. È un dolore che ti tiene costantemente sotto attacco e tu stai lì che saltelli da un piede all'altro di quelle caselle nere e bianche che formano la scacchiera della tua esistenza. È un dolore che ti fa delle promesse con quella faccia di scherno che si ritrova e quei denti lunghi e storti. Che ti sussurra che è lì, non se ne andrà mai, non ti lascerà mai, a meno che...
"A meno che".
Non ci voglio arrivare a quel "a meno che".
E allora speri. E trangugi qualsiasi avanzo ammuffito strappato dall'ultimo ripiano del frigo con qualsiasi pezzo di vetro ci capiti in mezzo. E quasi ne chiedi di più. Perché puoi tollerarlo il dolore, puoi gestirlo. Tutto, accetti tutto, tranne l'"a meno che". E ti spacchi le nocche contro il muro perché quando ciò che hai dentro non trova una voce un impatto che ti arrivi nelle ossa è l'unica scarica che possa riportarti alla lucidità. Benché, ammettiamolo, lasciarsi sopraffare dalla rabbia è sempre la strada più facile ed è sempre l'unica che non porterà mai da nessuna parte.
Sono un cazzo di Sisifo a cui hanno legato le mani e ora cammina a stento, mentre vede attorno a sé chi ama incollarsi pietre molto più grandi di qualsiasi montagna. Vorrei prenderli io quei massi, vorrei sollevarli o lasciare che mi schiaccino, ma liberando almeno le mani di chi mi ha sempre accudito. Nemmeno questo è concesso. Nemmeno scegliersi il proprio tormento che avrei barattato senza pensarci col supplizio di Tantalo. Venite avvoltoi, beccatemi pure le viscere, strappatele, usatele per adornarvi il collo come fossero collane di dolore, non importa. Basta che l'intestino che martoriate sia il mio.
Ma il dolore non è giusto, il dolore non è equo né equamente ripartito. C'è. Semplicemente. E al di là di tutto l'unico modo che abbiamo per contrastarlo è l'amore. E l'amore nemmeno è equo o giusto. Perché è imperioso e furente e collerico, talvolta, potente, invadente, illuminante e accogliente, se vuole. L'amore è.
Il mio amore è.
Per te.
Puoi calpestarlo e schernirlo. Puoi riporlo in fondo all'ultimo ripiano del tuo frigo e dimenticartene e farlo diventare uno scarto. Non me la prenderei. L'unica cosa che mi dispiacerebbe sarebbe l'idea di poterti un giorno avvelenare per sbaglio. Allora forse se non vuoi mangiarlo subito è meglio che lo butti. Liberatene e dammi in pasto solo al dolore, che sia altrui però, non il tuo.
Che, se non potessi darti la mia carne, ti nutrirei solo di latte di mandorla e tiramisù.
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Nudi
General Fiction- Dunque vuoi scoparmi? - chiese Adele, con candore forzato, come se gli avesse chiesto quanti cucchiaini di zucchero gradisse nel tè, - E sei convinto che io ti lascerò fare, anche - concluse, con un sorrisetto malizioso. - Voglio dimostrarti che n...