Ep6. La politica di Dorlindor

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Il magistrato alzò lo sguardo sul Palazzo Dogale. Era un insieme rettangolare di architettura occidentale e orientale che ben spiegava l'intensità dei rapporti commerciali e culturali tra la Serenissima Dorlindor e le altre città stato del continente. La sua bellezza si basava su un astuto paradosso estetico e fisico, per via della pesante mole del corpo principale sorretto da colonne all'apparenza esili, ma tutto questo al magistrato non importava.

Era sudato, pallido e i documenti sull'omicidio dell'Artista spuntavano dalla cartella che stringeva sotto l'ascella. Si tolse il cappello nero e lo lasciò cadere sulla schiena appeso a un cordino. Aveva i capelli impomatati, ma alcune ciocche stressate si erano alzate sulla nuca. Il vestito scuro che indossava gli donava un'aria austera e un corteo di nobili preoccupati lo osservò entrare nel palazzo. Poi, quando una folla di giornalisti si avvicinò armata di carta e penna per carpire informazioni, la superò ed entrò nel palazzo per incontrare il Doge, aggrottando la fronte e abbassando lo sguardo.

All'interno di quelle mura sembrava un giorno come tanti altri. I picchetti tenevano dritte le alabarde, mentre burocrati e avvocati che camminavano di ufficio in ufficio svolgevano i normali affari delle loro attività.

Quello scenario familiare vibrò sui suoi nervi come un lancio di pietre. L'Artista era morto, ma peggio ancora sua moglie, sorellastra del Giudice Iorveth del Consiglio dei Tredici era scomparsa senza lasciare alcuna traccia, proprio durante il suo mandato. Che maledetta sfortuna.

Lasciò le aree più trafficate del palazzo e se ne andò in terrazza, da lì scese le scale che portavano ai giardini. Qui era più tranquillo. Con l'indice si allargò il colletto della giacca che lo soffocava. Camminò lungo la siepe che prometteva un riparo un po' più ombreggiato e, seguendo una svolta sul percorso, entrò in un piccolo cancello, accostato ma non chiuso a chiave, che portava a un secondo giardino.

Un vialetto lastricato che si concentrava a spirale lo condusse al centro di tutto quel verde. Le aiuole di fiori erano lussureggianti. Le api ronzavano tra i roseti delicati e si battevano per il nettare della lavanda. Il profumo dei fiori e l'odore delle erbe erano forti e inebrianti. Superò vecchie statue e il muretto circolare di un pozzo scavato per l'irrigazione. Dietro c'era una colombaia, a forma di caratteristica casetta, piena di creature piumate e tubanti. Gli uccelli si crogiolavano al sole nella voliera vicina al loro rifugio, e poco distante il Doge se ne stava lì ad aspettarlo, mentre lanciava il becchime a quegli ignari uccelli.

Il magistrato rimase lì per un po', a distanza, lasciando che il cinguettio riposante lo calmasse. Poi fece un passo verso il Doge, afferrò la cartella sotto l'ascella, ma un fetore improvviso colpì il suo olfatto, trattenendo quel gesto.

Girò la testa e allo stesso tempo alzò la mano per coprirsi il naso e la bocca. Non riuscì a credere a quel che vide. I petali delle rose avrebbero dovuto essere bianchi, ma in certi punti erano tutti macchiati di sangue. Anche le foglie erano macchiate, e misto al sangue vi erano escrementi di uccello. Il ramo contorto di un glicine si inarcava sopra quelle piante, e sospesa in alto vi era una corona che somigliava a un bellissimo lampadario, se non fosse stato per gli uncini che penzolavano, senza candele e con una colomba bianca infilzata su ogni rampino.

Fu per il magistrato una scena grottesca. Un corvo era appollaiato sulla statua di un uomo più in là, un brandello di budella pendeva dal suo becco, strappato dall'ano di una delle colombe immolate e, mentre il magistrato fissava quella scena interdetto, con mosche e vespe che ronzavano sugli uccelli più rossi che bianchi, il Doge lo richiamò all'ordine.

«Amico mio, mi hai deluso. Non solo hai permesso l'assassinio di uno dei nostri nobili in questa città; ma ancora peggio non sai che fine abbia fatto sua moglie, sorellastra di un Giudice dei Tredici, qui come ambasciatrice della sua famiglia. Sai, ci ho riflettuto a lungo. Ho pensato a ogni possibilità e non credo sia solo che ti sei lasciato andare, ma credo che tu abbia anche cercato di scrollarti di dosso le tue responsabilità. Devo ricordarti chi ti ha permesso di ricoprire la carica di magistrato? Beh, forse la colpa è mia. Forse avrei dovuto ritardare la tua carriera fino a quando non fossi stato più maturo, più capace di adempiere ai tuoi doveri. Bene,» si tirò la punta dei baffi color ruggine mentre si voltava. «Non posso più rimediare ora. Ma il terribile guaio in cui ci hai cacciato è un qualcosa a cui posso porre rimedio senza perdere troppa credibilità agli occhi del Consiglio dei Giudici. Guardami, quando ti parlo.»

Il magistrato aveva cercato di evitare il suo sguardo. Ora riportava indietro gli occhi per incontrare quelli del Doge, cercando di mascherare la sua indignazione. Aveva compreso alla perfezione il rimedio di cui parlava. Intendeva fargli ammettere pubblicamente la sua incapacità, avrebbe chiesto al Consiglio dei Tredici Giudici di intervenire nella questione, approfittato per entrare nelle grazie di alcuni di loro, forse di Iorveth in persona, fratellastro di Aenlin, e ne avrebbe guadagnato in lustro e carriera.

«Non sarà piacevole amico mio. Dimettiti volenterosamente e dimostra alla città che sei ancora l'abile uomo che ha cercato di far rispettare la legge con grandi speranze. Ti chiedo solo due cose: limita la fuga di notizie ed esigi dai tuoi investigatori di scoprire il più possibile su questa faccenda prima dell'arrivo della Cittadella dei Giudici.»

Il magistrato soppesò le sue intenzioni. Il Doge indossava un calzino giallo e uno rosso, e pantofole foderate con pelliccia di ermellino. Riuscì a vedere i risvolti nei pantaloni. Sopra indossava una vestaglia di seta, fermata da una cintura dello stesso tessuto, con un pompon alla fine, come lo zucchetto sulla testa, il tutto bicolore, rosso e giallo. Era un uomo pingue, pieno di rotolini, più basso di lui, con dita come salsicce. Era calvo. L'assenza di sopracciglia faceva apparire i suoi occhi ancora più piccoli, ma gli splendidi baffi dalle punte impomatate lo rendevano, nell'insieme, la caricatura di un campagnolo che si atteggiava a nobile, eppure egli era la massima carica della città.

Per un po' attese la reazione del magistrato. Quando gli fu chiaro che non avrebbe reagito, si schiarì la gola e continuò. «Il Consiglio dei Giudici manderà qui uno dei tredici Capitani addetti alla loro protezione per prendere il tuo posto, quindi ritieniti sollevato dalle indagini.»

Quelle parole risuonarono contro il magistrato come il grido di una folla. Non gli aveva dato nessuna possibilità di replicare e per un attimo si sentì come un piccolo animale che spera di non destare l'attenzione del predatore su di lui. Un predatore che avrebbe potuto distruggergli la carriera. Rimase nel mirino del Doge senz'idea su come difendersi. Si sentì in colpa e imbarazzato da quel che era successo all'Artista come se fosse stata davvero colpa sua, ma sinceramente non ricordava di averne avuta.

Due idee si contesero per quale dovesse uscire prima dalla bocca, ma resosi conto che per il Doge lui non era altro che un servo, strinse i denti per non esprimere nessuna delle due, e il suo sguardo tornò alle colombe infilzate sulla corona uncinata. Era una struttura permanente. Il Doge e la sua famiglia adoravano regolarmente gli antichi dèi. Quella era un'offerta votiva affinché il suo piano di arruffianarsi un Giudice del Consiglio andasse in porto. E in quel momento l'orrore del magistrato si intensificò.

Mentre guardava, di colpo un uccello si contrasse sul suo uncino. Le ali e la testa si agitarono nel tormento, facendo sì che la giostra girasse leggermente. Il suo occhio spento sul lato guardò il magistrato mentre il becco si apriva e si chiudeva senza emettere alcuna voce, così l'uomo si allungò verso di lui mettendosi in punta di piedi, lo prese per le zampe e tirò con forza verso il basso mettendo fine al suo tormento. La rabbia per essere stato la vittima sacrificale nella politica del Doge si tramutò in furore per l'ingiustizia subita da quel povero uccellino. Perché quella piccola creatura doveva essere sacrificata per le ambizioni di un uomo? Perché la sua debole vita era così insignificante? Di che razza di azioni era capace l'uomo che guidava la sua amata città?

Mentre la osservava costernato, nel suo spettro visivo rientrò anche il Doge che all'improvviso aveva estratto da un fazzoletto ben avvolto una fetta di torta alle more. Ne pizzicò con un bocconcino la punta friabile, rosso scura. Con le labbra la spinse sulla lingua e poi, senza chiudere la bocca, aspirò. Gli occhi chiusi, in adorazione degli zuccheri. Il magistrato avrebbe giurato di aver visto la punta dei suoi baffi vibrare di soddisfazione se qualcuno glielo avesse chiesto. Il Doge muoveva i pezzetti sulla lingua come un intenditore che assaporava un vino d'annata. Mosse la gola con lentezza quando inghiottì. E quando riaprì gli occhi, il suo volto assunse un'espressione sbalordita.

«Mio caro, sei ancora qui?» chiese al magistrato.

«Non mi ha congedato, mio signore. E non ho ancora compilato i documenti per le mie dimissioni.»

«Oh, dunque. Congedato! Il segretario nel mio ufficio ti aiuterà con le firme. Fai esattamente tutto quello che ti dice come se fossi io a dirtelo. Puoi fidarti di lui.» E con quelle parole, tornò di nuovo alla torta.

Otto giorni più tardi il Primo Capocaccia Uipelet Prunin, Capitano della sesta divisione, partì dalla Cittadella che doveva difendere edificata sul guscio di Jhoradrim, la dea tartaruga, su richiesta ufficiale del Giudice Iorveth, fratellastro di Aenlin.

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