Betty (John)
È difficile, ma devo raccontare la mia storia. Non ho la presunzione di dire che tutto ciò che ho fatto è stato a scopo di bene, perché mentirei a me stesso. Tutto quello che ho fatto è stato per me, esclusivamente per me. E so che il dolore causato agli altri è stato tale da bruciargli il cuore, ma so anche che, nel fargli male, ho bruciato anche il mio. Due volte. Vorrei solo stare bene con me stesso ma non ci riesco e forse raccontarmi può solo che fare bene, almeno a me stesso, almeno per rendere distante quella che è la mia storia. Ho il tempo di una passeggiata al buio nel giorno più freddo dell'anno per farlo.
Ero un ragazzino normale, prima di conoscere Sherlock, e devo dire che quel periodo di me non mi manca: lui mi ha reso quello che sono, con pregi e difetti, zone di luce e zone d'ombra. È come se si fosse avvicinato a me quel giorno del primo liceo, e avesse deciso di regalarmi quella parte di me che mi mancava. Sherlock è fatto così: aggiunge dove c'è mancanza, riempie il vaso fino a poco sopra l'orlo senza farlo mai traboccare. È un chirurgo dalle mani ferme, ed io il suo paziente bisognoso di un trapianto al cuore. Ci siamo trovati subito ed è stato strano, quasi spaventoso, percepire una connessione superiore a noi due. Come se fossimo predestinati a trovarci. Sherlock mi ha salvato, ma allo stesso tempo mi ha condannato a una vita di dubbi, domande, incertezze. Perché se da un lato era il mio migliore amico, dall'altra percepivo una scintilla, ogni volta che eravamo insieme. E la cosa peggiore è che fosse simile alle scintille che provavo con le ragazze, solo che con lui era più forte, più intensa. Mi spaventava la remota possibilità di provare qualcosa per lui, perché nel mio mondo era il peccato più grave di sempre.
Non vedevo mia sorella da quando avevo dodici anni. Io e lei abbiamo dieci anni differenza, e con i miei ho sempre scherzato sul fatto che uno dei due non fosse voluto. Mia madre ora è convinta che lei sia l'errore, mio padre invece non pensa neanche a lei come un essere ancora vivo. Harriet è morta per loro quando ha baciato per la prima volta una ragazza. Ed io potrei fare la stessa fine, potrei morire anche io. Damnatio memoriae per coloro che osano anche solo avvicinarsi a qualsiasi tipo di anormalità, ci diceva nostro padre. Dannato lui e le sue massime antiche. Sono loro che mi hanno spinto a far male alla persona più importante della mia vita. Dannato me e il mio essere così assertivo nei suoi confronti, dannato me e il fatto che io non ho visto mia sorella per sei anni, dannato me e il fatto di non poter urlare davanti a tutti che lo amo. Ma finché eravamo amici potevamo vederci senza i miei rimorsi in mezzo.
Un giorno mi ha fatto ridere, e lo ricordo molto bene perché è stato quel giorno a farmi pensare che il mio cervello si stesse fottendo. Non era neanche una battuta divertente, o intelligente, o spiritosa, ma una risposta acida a uno dei miei innumerevoli dubbi. Mi ha fatto ridere e poi ha riso con me, e l'ho visto così spensierato, così... sé stesso che non ho potuto fare altro che poggiare la mia mano sul suo braccio. E per dio se ho sentito qualcosa che andava al di là dell'amicizia! In quell'istante tutte le parole d'odio di mio padre vennero a galla come pesci in un mare di catrame, e rimasi bloccato, fermo immobile contro quello che stavo negando per troppo tempo. Ormai non potevo più scappare da me stesso e da quello che provavo per lui.
È stato come se un pezzo di montagna, staccandosi, fosse finito in un lago artificiale, e la sua acqua avesse scavalcato la diga che la conteneva. La vittima? Io, succube di quella cascata anomala che non accennava a fermarsi. Io, ormai e per sempre sommerso.
Vorrei... avrei voluto... volevo fare di tutto per fermarla, ma come potevo? Come avrei potuto? Ero io che affogavo me stesso, ero io. Ero io e nessun altro a farmi male e a bloccarmi da ciò che provavo. Mi sono odiato per aver sentito il mio cuore fremere alla sua sola vista, e succedeva ogni volta che lo incontravo la mattina a scuola, e il pomeriggio, e la sera. Sherlock era diventato il centro del mio mondo e io non volevo che lo fosse. Cristo, se l'ho amato, se lo amo. E mi odio tanto quanto odio il freddo di gennaio, tanto quanto odio questa passeggiata forzata al buio sul ciglio della strada. Devo trovare le parole per farmi perdonare, deve sapere perché è successo quello che è successo e deve sapere che io non riesco a vivere senza di lui. Quanto sono egoista solo a pensarlo, ma lui è l'aria che respiro, e sono in apnea da giugno.
Ci siamo inseguiti a vicenda per vari mesi, dopo quell'episodio, fino a che non era diventato chiaro che io ero l'unico che cercava di raggiungerlo ma, come Achille con la Tartaruga, non riuscivo mai a prenderlo. E, naturalmente, il primo pensiero è andato ai miei atteggiamenti: un ragazzo dall'intelligenza come la sua non avrebbe potuto non accorgersi dei miei sentimenti, e forse voleva allontanarsi perché non provava lo stesso. Cercavo di pensare il meno possibile a questa possibilità (anche se, statisticamente, era più una certezza), provando a giustificare il suo comportamento in altri modi, ma non riuscivo a cavare un ragno dal buco. Sherlock era, è, e rimarrà il più bel segreto che io abbia mai avuto il piacere di scoprire, l'enigma più intrigante al quale non smetterò mai di cercare una soluzione, il quesito matematico su cui voglio dedicare la mia intera esistenza.
Era sempre gennaio, ma dopo il suo compleanno, che ho deciso di affrontarlo: il dubbio mi stava mangiando da dentro, e mi mancava la sua presenza accanto a me. Ero disposto ad uccidere a mani nude quei sentimenti pur di averlo vicino a me. Così sono uscito senza giacchetto, ho preso la macchina e sono andato sotto casa sua. Avevo paura di espormi, così non gli ho detto cosa provavo, ma gli ho chiesto perché si fosse allontanato. E lui non parlava, mi guardava con gli occhi spalancati come quelli di un bambino colto in fragrante. La voglia di baciarlo era tale che ho dovuto più volte fermare le mie mani dal prenderlo per le spalle e posare le mie labbra sulle sue. Poi però ho cominciato ad arrabbiarmi, e quelle stesse mani che volevano abbracciarlo hanno cominciato a spingerlo forte e in modo cattivo. Volevo baciarlo ma lo stavo odiando perché era fermo, davanti a me, come una statua di ghiaccio, come se improvvisamente il freddo che entrava dalla porta aperta gli fosse entrato fin dentro le ossa.
Fino a che le sue mani non si sono avviluppate sui miei polsi, bloccandomi dallo spingere un'altra volta. Non ha parlato, e grazie al cielo non lo ha fatto. Perché d'improvviso le sue braccia mi hanno guidato sul suo petto e le sue labbra si sono posate sulle mie. Io non sapevo come leggerlo allora, non sapevo che il solo presentarmi sotto casa sua era il gesto che lui aspettava per smettere di avere paura dell'amore, per smettere di avere paura di me. Non sapevo che bastava bloccarlo in un angolo e guardarlo negli occhi per permettere alla sua diga emotiva di rompersi esattamente come la mia aveva fatto mesi prima.
E così l'ho abbracciato come avrei voluto fare, e l'ho baciato tenendolo stretto a me, alzandomi sulle punte e inclinando la testa a destra, passandogli le dita sulla camicia per sentire i muscoli sotto i polpastrelli. Volevo percepirlo al più possibile come un essere diverso da una donna, avevo bisogno di sentirlo come un uomo, come l'unico che bacerei così. Perché di uomini non c'è nessuno, tranne Sherlock, l'unico per me. Era un bacio che sapeva di nuovo per entrambi, impacciato e perfetto così com'è stato. Le sue mani erano fredde sul mio collo, e mi guidavano mentre lui si lasciava andare a me. Entrambi ubriachi senza controllo ma allo stesso tempo vigili dei nostri movimenti. Alla pari, un insieme di parti del corpo che si completano a vicenda, incastrandosi perché destinate ad essere unite.
Non mi ero accorto che fossi entrato fino a quando il vento ha fatto sbattere la porta d'ingresso. È stato quel rumore a farci rinvenire come da un sogno lucido. Anche i suoi occhi erano lucidi, stava piangendo e lo avevo fatto anche io qualche ora prima. Ma le mie erano lacrime di disperazione, le sue lacrime di felicità. Gli ho sorriso, e l'ho baciato di nuovo.
Quanto avrei voluto rimanere sulle sue labbra per sempre. Ma doveva arrivare il momento in cui sarei tornato a casa, ogni giorno, dopo aver baciato un uomo ed essermelo goduto, e avrei guardato negli occhi mio padre con la consapevolezza che quello sguardo amorevole sarebbe scomparso lasciando spazio al disprezzo, se solo avesse saputo cosa avrei appena fatto fuori dalle mura di casa. Per sei lunghissimi mesi tornavo a casa ed ero costretto a mettere in scena il solito teatrino di normalità al quale mio padre adorava assistere. Sono stati mesi estenuanti, in cui credevo seriamente che un giorno mi sarei sdoppiato per tenere le fila delle mie due diverse persone: quella vera, quella che teneva Sherlock per mano mentre guidava, che lo baciava e che lo amava; e quella finta, per tenere a bada l'ira funesta dei miei genitori. Ho vissuto sei mesi di purgatorio con l'unica differenza che alla fine sono caduto all'inferno come Lucifero dal Paradiso. Solo che la colpa non era mia.
Non avrei mai voluto che gli eventi prendessero questa piega, eppure sono stato costretto ad allontanarmi da lui a farmi credere etero interessato a una fiamma estiva. Ho dovuto ferire la persona più importante della mia vita, illudere una ragazza e rinnegare me stesso, solo per uno sguardo. Prima di essere messo in pericolo dalle mie stesse azioni, dalla mia stupidità, andava tutto bene. Ero riuscito in qualche modo a mantenere una doppia identità senza farmi scoprire. E le cose con Sherlock non potevano andare meglio. Dio se lo amavo, lui era l'unica persona ad avermi fatto provare qualcosa in un tempo lunghissimo, forse qualcosa che mai avevo provato in vita mia. D'altronde, l'ho conosciuto quando ero ancora un bambino e tutta la mia innocenza era esposta alla luce del sole: io sono cresciuto con lui e, nonostante quattro anni di incertezze sulla nostra amicizia, alla fine sono riuscito a capire che non avrei potuto stare da nessun'altra parte del mondo che non fosse al suo fianco. Lui era la mia casa. Non glie l'ho mai detto ma non ce n'era bisogno, con lui le parole erano superflue e le azioni erano troppo. Camminavo, io, sul confine sottile tra le due cose ed ero l'unico a mantenere l'equilibrio con lui. Sapevo sempre quando parlare e quando agire, e lui sapeva lo stesso di me. Tanto che non c'è mai stato bisogno di dirci "ti amo" ma allo stesso tempo abbiamo parlato a lungo del fare l'amore prima di farlo davvero.
Vorrei poter ricordare ogni parola di quei lunghi discorsi avuti in macchina, ma la mia mente ricorda brevi frammenti, tutti pronunciati da lui. Come la prima volta che ha detto che si fidava abbastanza di me, o quando mi ha detto «Tu sei l'unico, John. L'unico che vorrei avere al mio fianco». Ricordo quelle parole e ricordo come mi facevano sentire, come se dentro di me un'orchestra stesse suonando un adagio di una sinfonia classica. Ero melma tra le sue labbra e sul suo corpo e sulle sue parole e sul suo respiro. Mai avrei voluto scambiare quella sensazione per qualcos'altro o qualcun altro. Sherlock era tutto ciò di cui avevo bisogno e tutto ciò che cercavo. E quando quei discorsi melodiosi divennero corpo, quando il mio e il suo si unirono, sul sedile posteriore della mia macchina, lì io avrei voluto morire, avvolto dalle sue gambe e dal suo petto, stretto dalle sue mani e dalle sue braccia, amato dalle sue labbra schiuse sulle mie. Se avessi dovuto vivere solo con lui e la mia auto, in quel frangente (e forse anche adesso) avrei detto di sì. Mille volte sì.
Ma il vento sottile dell'amore, trascinando l'aria della primavera, si è estinto col solstizio d'estate.
Anche il moto più studiato alla fine sperde energia, esaurendosi lentamente, e il nostro orologio biologico ha suonato quando gli occhi di mia madre hanno intercettato i miei, su quella strada tra i boschi mai frequentata. Ed ero con Sherlock, mano nella mano con lui nella mia auto ferma sul ciglio della strada, quando mia madre ci è passata accanto con la sua Ford grigia, l'unica persona ad avere quella macchina nel giro di chilometri e chilometri. Non poteva che essere lei. Mi aveva visto con lui? Aveva scoperto la mia vita segreta? Aveva scoperto che anche io ero venuto su difettato? Come potevo rischiare ancora? Cosa sarebbe potuto succedere se lei ne avesse parlato con mio padre? Tutte quelle domande mi stavano cerchiando la testa, e Sherlock accanto a me non riusciva a capire quello che era appena successo. Io ero in pericolo e l'unico modo per salvarmi sarebbe stato allontanarmi da lui.
Ricordo poco delle parole d'amore che gli ho detto, ma ricordo sillaba per sillaba quelle che ho sputato fuori quel giorno, le uniche parole false che gli abbia mai rivolto. Fa male pensarle adesso ma mi è necessario per capire come fare a riaverlo con me anche dopo che gli ho spezzato il cuore.
«Sherlock» gli ho detto «Non posso più continuare così. Mi devo allontanare da te». E ovviamente quelle parole lo sorpresero perché giusto qualche minuto prima lo stavo baciando nel fuoco dell'amore. Non volevo perderlo ma avevo bisogno di mettermi in salvo, così ho continuato a fare la faccia tosta, a montare scuse su scuse fino a casa sua, fino a che non l'ho congedato, senza neanche guardarlo in faccia. Avrei voluto che combattesse, che facesse qualcosa per non lasciarmi andare, ma non ha fatto niente, è sceso dalla macchina e se ne è andato. Senza voltarsi indietro neanche una volta.
Forse è stato meglio così, perché la sua resistenza mi avrebbe fatto più male, ma in quegli attimi pensai che forse anche lui si fosse stancato di me e aspettava il momento giusto per lasciarmi. Ora so che non è così, perché Molly mi ha raccontato del dolore che ha visto in lui dopo quel giorno, la stessa ragazza che gli ha detto che mi vedevo con una ad agosto ma non gli ha spiegato il perché.
Può sembrare fuorviante, senza la motivazione profonda, il fatto che sia stato un mese intero con Mary Morstan, conosciuta al centro commerciale il trentuno luglio. Ma la verità è che Mary è stata uno strumento per cercare di dimenticarlo e per convincere i miei genitori e in parte me stesso che ero normale, che non ero come mia sorella. E questo Molly lo sapeva ma non glie lo ha detto, lo sapeva, ma ha preferito farmi passare come il cattivo per sperare di conquistare in qualche modo Sherlock.
La verità su quel mese d'agosto la so solo io e nessun altro, ma dovrebbero saperla tutti. Dopo aver lasciato Sherlock, quel ventuno giugno, sono tornato a casa dove mi stava aspettando mia madre. Ovviamente mi aveva visto, ma fortunatamente non aveva capito che Sherlock fosse un uomo, non aveva visto la mia anormalità, non mi aveva smascherato. Il sollievo che mi pervase però durò poco: non potevo continuare a vivere quella doppia vita che mi stava mangiando dentro, non potevo continuare a soffrire e allo stesso tempo essere immensamente felice. Così passai un mese intero tra casa e il mare, da solo.
Quel mese di luglio fu strano, perché ogni giorno mi svegliavo in un letto che non sembrava essere il mio e la prima cosa che facevo era pensare a Sherlock. Mi lavavo, mi vestivo e, senza neanche fare colazione, prendevo la macchina e andavo sulla spiaggia. Passavo intere ore a galleggiare nell'acqua, lasciando che le mie lacrime si mescolassero ad essa e che i miei occhi si bruciassero nel guardare direttamente il sole. Avevo bisogno di scomparire e fondermi col mare per cercare di trovare una soluzione alla mia vita, per cercare di capire chi fossi e chi sarei potuto diventare. Fosse stato solo per me, non lo avrei mai lasciato, non avrei mai permesso di allontanarmi da lui: Sherlock è l'acqua del mio bicchiere e l'ossigeno dei miei polmoni, lo è stato fin da quando avevo quattordici anni e non riesco ad immaginarmi una vita senza di lui. So di essere giovane, so di non sapere niente, ma con lui il mondo era trasparente, senza ombre, pronto ad accogliermi, pronto ad essere conquistato da noi. E adesso vedo nero e la luce appare lontana, quasi inesistente. Ed è da giugno che non capisco più niente, e da luglio non mi riconosco più, i giorni hanno lo stesso sapore di pasta sciapa, indifferente.
Poi ho conosciuto Mary Morstan, e lei non ha fatto altro che mostrarmi che la via giusta era quella che avevo lasciato. Non avevo niente contro di lei, perché ero io il problema. Lei era la ragazza perfetta: intelligente, scaltra, ironica, bellissima. Ma io non volevo una ragazza, io volevo Sherlock, e mi dispiace averlo capito dopo un intero mese, mi dispiace averla usata e mi dispiace averla lasciata dopo aver fatto sesso, ma è stata quella notte a farmi aprire gli occhi. Quando chiudevo gli occhi, in quella macchina, non era lei sulle mie gambe, non era lai a baciarmi, non era lei ma Sherlock, ed è stato difficile non sussurrare il suo nome, cercare le sue braccia senza rimanere deluso da quelle di Mary, cercare il suo profumo senza trovarlo, cercare lui e trovarsi un'altra. Sono stato uno stronzo a lasciarla subito dopo, ad usarla per i miei scopi meschini, ma lei è stata fondamentale a farmi capire che ciò che provo per Sherlock non è anormale, non è sbagliato, non è un peccato. È, e sarà per sempre, amore.
Le giornate al mare a studiare i chicchi di sabbia uno ad uno, cercare di contarli come due idioti.
I tramonti nell'acqua.
Le ore in macchina a parlare del futuro e dei sogni.
L'inverno, la primavera, il primo giorno d'estate.
I 'ti amo' sulle labbra, sulla pelle.
Sherlock.
È da settembre che cerco le parole adatte, ma ogni volta muoiono in gola quando lo vedo da lontano nei corridoi della nostra scuola. Ci provavo, ogni giorno, ogni ora, e ogni singola volta mi ritiravo come un codardo, come una tartaruga nel suo guscio. Mi chiedo adesso se, dopo tutto questo tempo a camminare al freddo per andare da lui, sia riuscito a trovare quella briciola di me che si era presentata a casa sua quasi un anno fa, quando mi ha baciato sulla porta.
E poi mio padre è morto.
È successo tutto così velocemente che il dolore non ha fatto in tempo ad arrivare, perché io ero già andato avanti. E sinceramente, con tutto quello che è successo, mi è sembrata solo una parentesi, un intralcio scomodo alla mia vita. È brutale parlare così, perché da fuori eravamo una bellissima famiglia, unita, amorevole, ma io non vedevo mia sorella per colpa sua, e lei non vedeva la sua famiglia per colpa sua. Non era un cattivo uomo, ma di certo un cattivo padre. Un genitore non è un albero di melo che crea mele, ma un albero dal quale può uscire qualsiasi frutto, e questo lui non lo poteva accettare: ha cresciuto Harriet come sua madre e me come lui. Ma la cosa più fastidiosa è che ci sono delle parti di me uguali alle sue, come quella che mi ha allontanato da Sherlock.
Comunque, era il 22 ottobre quando è successo. Il funerale è stato atroce, la sua preparazione anche peggio. La voce si è sparsa per il paese a macchia d'olio e alla cerimonia c'erano tutti, anche Sherlock. Vederlo a scuola faceva male, ma vederlo davanti alla tomba di mio padre, immobile, era peggio. Non so perché, ma la sua presenza lì sembrava urlarmi che tutto ciò che c'era tra noi due era scomparso, sepolto con mio padre, tra le sue mani fredde, e che non potevamo stare insieme. Sherlock non si è avvicinato a me, non mi ha fatto le condoglianze e non mi ha neanche guardato: insieme a Jerome Watson era morto anche il nostro amore. Piansi per quello. Durante la cerimonia mia madre, trasformatasi in un guscio vuoto, mi prese la mano: piangevamo entrambi e non per ciò che avevamo di fronte, ma il dolore è la cosa più semplice da condividere. Mentre il prete imbastiva un discorso per l'uomo che era mio padre, il posto accanto al mio venne occupato. Per un attimo pensai fosse Sherlock, ma quando alzai lo sguardo mi accorsi che era mia sorella, Harriet.
Non parlai, all'inizio, troppo impegnato a guardare il suo viso così diverso rispetto a sei anni prima, ma poi mi sciolsi sulla sua spalla e lei poggiò la testa sulla mia, sussurrandomi: «ciao, piccola peste». Tra le sue braccia tutto il rammarico per la morte di quell'uomo sparì, perché mi aveva allontanato dalla mia Harry e la sua dipartita l'aveva fatta tornare. Siamo stati per sei anni una famiglia spezzata, e il funerale l'ha aggiustata.
Mia madre ha chiesto scusa, Harriet ha perdonato. Quel giorno è stato uno dei più belli della mia vita. Sarò brutale verso il mio stesso padre, ma anche Cesare è stato tradito dal suo stesso figlio. Io posso fare lo stesso, io ho fatto lo stesso.
Prima di infossare la tomba nessuno dei familiari ha fatto un discorso, ma io mi sono alzato, nel silenzio della mia folla. Ho preso una manciata di terra e, guardando negli occhi di Sherlock (l'unico in piedi insieme a me), l'ho buttata sul legno lucido. Ho abbassato lo sguardo un attimo verso la tomba che stavano calando nella fossa e quando ho alzato di nuovo gli occhi lui non c'era più.
Senza mio padre il rapporto con mia sorella è stato ripreso da dove si era interrotto, come se sei anni non fossero mai passati, e quello con mia madre l'ho ricostruito piano piano. La morte di Jerome Watson mi ha fatto pensare che forse non ero io, l'anormale, quello sbagliato, la mela marcia. Che forse potevo amare Sherlock perché si poteva fare e non perché fosse uno sbaglio. Che non c'è niente di sbagliato in me e che tutto può andare bene.
È con questa certezza che arrivo sotto casa di Sherlock, è questa certezza che mi mancava prima di oggi. Anche adesso nevica, come quel giorno di gennaio di un anno fa, ma non siamo solo io e lui stavolta. Stavolta c'è tutta la scuola a casa sua, perché Molly ha voluto organizzare una grande festa visto che casa Holmes era vuota (come l'anno scorso, lui è rimasto a casa e gli altri sono andati a sciare). Non so perché Sherlock abbia acconsentito a questa cosa: lui neanche le conosce, tutte queste persone. In tutta la scuola penso che lui abbia rivolto la parola a pochi indispensabili, che si possono contare sulle dita di una mano. Eppure sono tutti lì. Chi sulle scale, chi sui muri, chi riverso a terra già ubriaco o fatto: questa non può essere la festa di Sherlock.
Sento il freddo congelarmi da dentro e il calore della casa è troppo invitante per non entrarci, anche perché l'unica persona di cui ho bisogno si trova lì. Conosco quelle mura come me stesso, perché ogni metro cubo di quella casa è legato a un nostro ricordo, ogni soprammobile, come il vaso scheggiato all'ingresso, ogni quadro, come quello storto adiacente alle scale, ogni mobile, dal divano alla credenza, è macchiato del nostro amore, quell'amore che io voglio disperatamente indietro. Ma non trovo Sherlock da nessuna parte, e non mi sorprenderebbe se lui non ci fosse effettivamente.
Ma poi, tra tutte le voci che si mescolano, ne sento una distinta: è Greg, e sta urlando il nome di Sherlock verso le scale. Lui è qui, respira la mia stessa aria, vede le stesse persone e gli stessi oggetti. Guarda me, e io guardo lui.
È così bello. Non ho mai conosciuto una persona così perfetta prima di lui, così... angelica e allo stesso tempo peccatrice. Non è un essere di questo mondo, quegli occhi non possono essere umani, non possono avere la stessa forma del mio DNA, non possiamo appartenere alla stessa specie. Sherlock è... è... è tutto ciò che ho sempre voluto ma mai saputo di volere fino a questo momento, è l'epifania che dissolve la nebbia dai miei occhi, è l'angelo che visita Maria, è Virgilio che accompagna Dante, è il pezzo mancante della mia vita, più di quanto possa esserlo mio padre da quando è morto. È la risposta a tutte le mie stupide domande.
Sherlock, quante cose vorrei dirti, quante parole vorrei che tu ascoltassi, quanti discorsi che ho fatto allo specchio ma che segretamente erano rivolti a te ho pronunciato. Tutto, per questo momento in cui sei davanti a me (e potrei allungare la mano e toccarti se tu volessi). Tutto, ma una sola domanda è rimasta in sospeso.
Se mi presentassi alla tua festa, mi vorresti lì?
Ma io mi sono presentato senza preavviso, mi vuoi?
«John» il mio nome sulle sue labbra. So a memoria tutte le sfumature che prendono quelle quattro lettere quando pronunciate da lui. Sorrido perché tutte quelle parole che avevo imbastito sono scomparse dalla mia testa. Il potere che quest'uomo ha sulla mia mente è più forte di tutti gli insegnamenti bigotti che mi sono stati propinati dalla mia nascita.
Intorno a noi le persone o non ci sono, o sono in silenzio, o sono scomparse, ma onestamente potrebbero dissolversi e trasformarsi in creature magiche perché comunque non mi importerebbe. Per così tanto tempo sono stato condizionato dal loro giudizio e mi sono stancato di farmi dettare la vita da loro. E ora capisco quando Sherlock mi dava dello stupido, perché lo sono davvero, se mi sono precluso la cosa più bella dell'universo solo per paura di un loro sguardo o smorfia. Sono stato un idiota.
Ed è quello che dico. «Sono stato un idiota. Sono stato un codardo, sono stato cieco, sono stato stronzo» e la lista potrebbe continuare all'infinito, ma Sherlock pronuncia ancora il mio nome e si avvicina a me, e io non posso fare che smettere di parlare per un attimo, il tempo di godere della sua vicinanza.
Sono davvero un'idiota. Anche mia sorella me lo ha detto, quando gli ho raccontato tutta la storia. Ha capito perché l'ho fatto, ma mi ha anche detto che non sono stato coraggioso. Tutti loro hanno ragione. I riflettori sono puntati su di me. Anche adesso Sherlock aspetta che io parli.
«Ho lasciato che il giudizio degli altri, che i pregiudizi e i pensieri bigotti di cui sono stato circondato per tutta la mia vita, si intromettessero tra noi. Non volevo farti male e non volevo farti soffrire, non era questo il mio obiettivo. Volevo proteggermi, Sherlock, da quello che gli altri avrebbero potuto dire di me, senza pensare a quello che effettivamente avevo voglia di fare» le parole scorrono fuori di me come un fiume. È una sensazione stranissima, come se io non avessi il potere di controllarmi e qualcuno avesse preso il mio posto. Sono parole non programmate, sconclusionate, eppure sono quelle giuste. Gesticolo nervoso, mentre Sherlock mi guarda e nei suoi occhi vedo tutta la tristezza che gli ho provocato.
«Io voglio stare con te -non ci credo che proprio io sia riuscito a dire queste parole ad alta voce- ho sempre voluto stare con te, dal momento in cui ho capito che eravamo più che amici. Quest'estate è stata la peggiore della mia vita, perché ho provato a dimenticarti ma non ci sono riuscito. -sono lacrime, quel calore che sento sulle mie guance fredde- Ti ho fatto male, lo so, e so anche che potresti non perdonarmi per quello che ti ho fatto, ma devo almeno chiederti scusa, devo almeno provare a farmi perdonare»
Ho bisogno di un momento per smettere di piangere, perché mai come adesso la possibilità di non ottenere il suo perdono si prospetta spaventosa davanti a me. Prima di adesso la speranza mi ha illuso di poter riaverlo indietro sicuramente. Ora, con lui davanti a me, questo discorso improvvisato male, tutti che ci guardano e che non avrebbero dovuto, quella stessa speranza è un fuoco senza ossigeno, che sta esalando gli ultimi respiri, e tutta l'idea di un finale alla Notting Hill è tornato ad essere un'illusione.
«Ci sto provando, adesso. Ma non avevo programmato di dirti tutto questo davanti a una casa piena di gente, davanti a persone che nemmeno conosco e che prima di oggi hanno avuto il potere di influenzare le mie scelte» Per favore, Dio, dammi il coraggio di dirgli tutto quello che provo. Respiro profondamente, Sherlock non si è ancora mosso, ma vedo le sue lacrime attraverso le mie.
«Quello che non avevo previsto, ed è il succo di tutto questo, è che io ti amo, Sherlock. Ti amo così tanto che non penso sia normale per una persona della mia età, ma è così. E sono qui, e ti sto chiedendo di riprovarci, di nuovo...» vorrei continuare all'infinito questo sproloquio ma le parole si sono esaurite, e il fuoco è ormai spento.
Niente di tutto quello che ho detto faceva parte del discorso originale. Avrei voluto spiegarli cosa fosse successo e perché, ma mi è sembrato più importante mettere il cuore in mano davanti a tutti, dimostrargli che io non ho paura di loro, non ho paura di mostrarmi innamorato, mostrarmi debole, mostrare le mie lacrime. Eppure adesso, dopo questo discorso, dopo aver pianto, dopo che ho sentito tutti bisbigliare alle mie spalle, adesso mi vengono in mente le parole di Sherlock in tutti questi anni. Quando ha cominciato ad appassionarsi al risolvere crimini, al cercare indizi e soluzioni, diceva sempre che i fatti sono la cosa più importante e che le parole non salvano mai da un omicidio. Che se uno ha un'arma in mano, difficilmente i bei discorsi lo possono dissuadere dallo sferrare il primo colpo, e Sherlock ha il coltello dalla parte del manico mentre io gli sto chiedendo di non uccidermi.
Tre sono i secondi che passano prima che succeda qualcosa, gli istanti più lunghi della mia vita.
Mi sento come in caduta libera, con la certezza che sarei arrivato fino alla fine dell'inferno, ma allo stesso tempo mi sento leggero, una piuma che si adagia a terra. È strano perché sono dilaniato da due sentimenti contrastanti e opposti tra di loro, che cercano di distruggersi a vicenda eppure convivono. L'ansia mi mangia da dentro come un tarlo, mi dilania, eppure sono contento, soddisfatto quasi, di aver detto quello che ho detto, e di averlo fatto davanti a tutte queste persone. A prescindere da quello che potrebbe dirmi, so di aver fatto tutto ciò che mi era possibile per cercare di farmi perdonare. Solo un anno fa non sarei mai riuscito a parlare dei miei sentimenti per un uomo davanti a tutte queste persone, e adesso sono al centro di un salotto ghermito di persone, e tutti guardano me con il cuore in mano, davanti a Sherlock che ancora non ha parlato. Un'infinità di tempo dove sono passati solo due secondi e non ha ancora parlato, non ha ancora parlato, non so se lo farà. Vorrei scuoterlo per le spalle, svegliarlo da quello stato di immobilità e chiedergli incessantemente se stiamo bene, se staremo bene. Staremo bene? Non lo so, non lo so. Parla, Sherlock, parla.
E all'improvviso qualcosa accade. Non sono parole, non urla, niente di tutto questo, no. Sherlock mi ha preso la mano, in silenzio, e mi ha portato via di lì. Una scossa elettrica ha percorso il mio corpo, partendo dalle mie dita fino ad arrivare ai piedi, passando per il cuore. Mi ha guidato fuori, in giardino, e io l'ho seguito senza lasciare la presa. Ha ripreso a nevicare ma a lui non sembra importare. Di conseguenza, non importa neanche a me. Sherlock sotto la neve è esattamente come un anno fa, se non più bello: i fiocchi bianchi rimangono incastrati tra i suoi ricci, le sue guance diventano rosse come ciliegie e i suoi occhi diventano ancora più gelidi per tutti coloro che li guardano. Per tutti, tranne che per me, che anche adesso, guardandolo, mi sembra di vedere un principio di fiamma, di caldo, di giallo, tra tutto quel grigio.
Sherlock ancora non parla ma non mi lascia la mano, ed io vorrei solo che dicesse, facesse qualcosa, qualsiasi cosa. Sono argilla tra le sue mani.
Sospira pesantemente, Sherlock, e l'aria si tinge di bianco intorno a lui, quando dice: «tu sei un folle»
Vorrei rispondergli di si, dirgli che sono pazzo quando si tratta di lui, che farei di tutto per lui, ma le parole mi muoiono in bocca quando lui si avvicina e mi bacia, inaspettatamente.
Mi sento di morire, sono certo di star per morire, perché dopo aver aspettato tutti questi mesi, dopo avergli fatto così male, la mia speranza era minima se non nulla. Sono venuto qui solo perché glie lo dovevo, dovevo dirgli che non era colpa sua ma solo mia. Di certo non mi aspettavo seriamente che lui mi perdonasse. Non so perché mi stia baciando, ma non sono nessuno per lamentarmi, e rispondo al suo bacio baciandolo a mia volta, come se la mia intera esistenza ne dipendesse. Mi aggrappo alla sua camicia, alla sua pelle, ai suoi capelli. Dio, questa sensazione, questa di averlo con me stretto tra le mie braccia, senza lasciarlo andare. Siamo fatti per stare insieme, lo sento dentro di me, come se il mio corpo e la mia mente non fossero completi senza il suo corpo e la sua mente. Ti amo ti amo ti amo, glie lo scrivo sulle labbra con le mie, con le mani sulle sue, sotto la neve che scende copiosa su di noi come un freddo abbraccio.
Ti amo e mi dispiace, glie lo voglio dire con le parole ma lui non me lo permette perché non si stacca da me. Sento come se volesse recuperare sei mesi di tristezza con un bacio che sa di infinto. Quindi uso ciò che ho a disposizione: le mie labbra, che si aprono ad accogliere la sua lingua ben felici di ritrovare una vecchia amica; le mie mani, che non sanno quali delle strade percorrere, che ne cercano di nuove ma non le trovano perché le hanno già attraversate tutte, e che si fermano sul suo collo solo per sentire il battito del suo cuore vivo e vicino; le mie braccia, che hanno il solo compito di non lasciarlo più andare, di non permettermi di fare di nuovo lo stesso errore; il mio petto che deve stare accanto al suo; tutto il mio corpo che è pronto ad essere accolto.
Ti amo e non ti permetterò di allontanarti da me, questo è quello che mi sta dicendo lui, invece. Sento in lontananza voci insignificanti e macchine che si allontanano* ma nulla importa quando Sherlock è con me. Sorrido nel bacio per mandare a fanculo mio padre e dirgli che non manca a nessuno su questa terra perché con lui era solo un inferno; con Sherlock è il paradiso che lui mi ha negato per diciotto anni.
Lui si stacca ma non si allontana, non ne ha intenzione.
«Mi dispiace per tuo padre» sussurra sulle mie labbra ed io rido, apertamente, come non facevo da mesi.
«Non è vero» rispondo tra le risate e le lacrime di gioia: neanche io mi ero accorto di star piangendo.
«No, infatti -continua lui accarezzandomi la guancia- era un pessimo padre»
Sono mille e più i sottointesi di queste parole. Sherlock non ha bisogno di parole per capire le cose, non ha bisogno di grandi spiegazioni quando la sua peculiarità è dedurre gli altri. Forse sono io che non ho decifrato la situazione, perché forse lui non stava facendo altro che aspettarmi, in tutti questi mesi. La consapevolezza di questo mi apre ancora di più gli occhi. Sherlock è nettamente una persona migliore di me. Non mi ha ignorato, non mi ha evitato, mi ha aspettato e mi ha rispettato, nonostante gli avessi fatto male e lo avessi allontanato. Dio, se è un genio. Sorrido ancora di più, lui lo nota.
«Hai capito» afferma.
«Sì -rispondo, e gli do un bacio sulla guancia- scusami se sono stupido»
Alla fine abbiamo diciotto anni, non sappiamo niente.
L'unica cosa che so io è che mi mancava, e l'unica cosa che sapeva lui è che sarei tornato.
*tra le macchine che si allontanano c'è quella di Mary :)
NdA. Eccoci giunti alla fine di questa piccola storia! Fino all'ultimo minuto ho pensato se dividere questo capitolo in due parti, ma poi ho preferito lasciarlo integro, mi sembrava più consono per la struttura della storia. Ecco la storia di John, che ingloba le altre due, fa uscire la verutà così com'è. è il punto di vista più completo tra i tre. Mi è piaciuto tantissimo scrivere questa storia, specie i piccoli dettagli diversi tra come John si comportava con Sherlock e Mary, usare le canzoni di Taylor Swift come tessuto dei sentimenti, sviscerarle per inserirle parola per parola. Queste canzoni sono l'anima della storia, e se non le avete ascoltate va bene, ma ci sono così tanti richiami che è quasi imbarazzante per me! Vi lascio qua sotto le canzoni che ho usato per scrivere questa storia (tutte di Taylor. Intanto vi ringrazio tantissimo per aver letto la mia storia.
-ACardigan
My tears ricochet
mirrorball
august
this is me trying
illicit affairs
betty
Out of the woods
champagne problems
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Folklore (Johnlock's version)
FanficSherlock e John sono due ragazzi che abitano in un paese vicino al mare dove ogni inverno nevica, si conoscono dal primo giorno di liceo e sono cresciuti insieme fino a che la loro amicizia si è trasformata in qualcosa di più. Ma non esistono solo l...