Più ti guardo, più mi perdo nella tua bellezza. Il mio cuore batte forte, rulla come un tamburo, potrei quasi danzare al suo ritmo incalzante. Sono un abile ballerino sari? Già da piccolo danzavo fra il cortile e il divano, augurandomi in un giorno futuro di poter solcare i teatri del mondo.
A mio padre non piaceva che danzassi. Diceva che era da "femminucce". Pronunciava quella parola arricciando le labbra tiepidi e screpolate sottili, simili a tagli di taglierini su una tela sgualcita. Quando mi vedeva ballare, storceva il naso, inclinava la testa e con tono acido mi apostrofava a male parole, alle quali facevano seguito le sue dure dita callose. Mia madre, povera anima, taceva e beveva e guardava e taceva.
Così, schiaffo dopo schiaffo, persi la voglia di danzare. Il mio fuoco si spense per molti anni, tuttavia le botte persistettero. Sai, anche i capelli lunghi erano considerati da "femminuccia" così come questi tatuaggi che vedi sulle mie braccia. Oppure semplicemente l'atto di commuovermi davanti allo schermo del televisore o ascoltando le note e il testo di una bella canzone. Insomma, c'era sempre una motivazione per afferrare la cintura e sfilacciarmi addosso la cinghia. E mia madre beveva e taceva e guardava e taceva e dalle sue palpebre nessuna lacrima scendeva. Se ne stava immobile, rigida e impassibile.
Hai sentito la rima? Ho sempre amato scrivere rime e versi, poesie e filastrocche e mi vantavo di avere una ben più che valida penna. Eppure, anche scrivere era un'attività da "femminuccia". Fatta eccezione per gli articoli di cronaca o agli articoli sportivi, la scrittura era in casa considerata mera e banale spazzatura. Soprattutto la poesia, inutile e dannosa, poiché conduce l'uomo a sognare e a staccare i piedi da terra, librandosi in ciel verso chissà quali mete incantate. Purtroppo tali mete distraggono dalla verità delle cose, dalla pratica concreta, dal raziocinio, dallo stare con i piedi per terra. Così quando mio padre scoprì i miei diari di scrittura, li raccolse tutti dando loro fuoco nel fondo della cantina, proprio dove era solito prendermi a cinghiate quando gli era venuta a noia di restarsene quieto e pacato. Ricordo il suo sguardo severo, la bocca serrata e il cipiglio duro e cupo. E mia madre taceva e beveva mentre il labbro immobile mai tremava.
Poi sei arrivata tu. Improvvisa. Inaspettata. Dolce e delicata. Nella nostra dimora, mi ricordavi una rosa d'inverno, sferzata dal ghiaccio di mia madre e dal vento in tempesta di mio padre. Come? No, loro non saranno mai i tuoi genitori. Sono stati i miei, ma tu con loro non devi averci niente a che fare. Non te li ricordi vero? Significa che sono stato bravo, più bravo di quello che pensavo.
Un mese dopo il tuo arrivo, l'aria che si respirava era più intensa che mai. Vedevo gli occhi di mio padre stringersi su di te, sapevo bene quali fossero i suoi desideri più proibiti. E mia madre taceva e beveva e mai ti guardava, anzi ti ignorava e di notte ti malediceva affondando il volto nel cuscino, cercando di non farsi sentire, ma io sentivo: eccome se la sentivo! E poi vedevo lui. Lui che si avvicinava e ti guardava esattamente come prima di allora aveva guardato me. I suoi occhi si stringevano biechi e sottili, simili a cicatrici nel terreno, linee di crepe nelle mura di rigide e severe cattedrali. E io sapevo come sarebbe andata a finire. Ne ero certo, pienamente consapevole dell'esito. La tua trama era già segnata, il tuo racconto sarebbe stato esattamente come il mio.
Fu allora che realizzai che non potevo permetterlo. Non potevo e non dovevo. Sai, talvolta ci si sofferma sulla differenza fra questi due verbi: a volte si può e non si deve; a volte non si può e non si deve; a volte non si può, ma si deve. Concetti complicati da spiegare e da comprendere. Ma non c'era niente da spiegare, io dovevo solo agire. Così mi ricordo che scivolai nella camera da letto dei miei genitori, bada bene, i miei, non i tuoi. Ti ho risparmiato di affiliarti a quella coppia di sudici individui dalle mani sporche e le anime cupe e lacerate. Sono scivolato come l'inverno sulle montagne, silenzioso e ghiacciato e appuntito. Mio padre russava con la bocca aperta, un rumore insopportabile. Gli cacciai la lama del coltello fino in fondo, così da strozzarlo con il suo stesso sangue. Non un urlo, solo squallidi gorgoglii privi di significato. E per la prima volta in vita mia vidi come l'arte è in grado di assumere diverse forme. Poesia scarlatta e affilata, tagliente.
Mia madre? Parlava. Strano vero? Nel sonno diceva tutte le parole che sotto il sole non riusciva ad esprimere. E dovevi sentire come ciarlava! E gli argomenti! Spaziava dal clima alla politica allo sport e ai romanzi d'amore. Mentre mio padre moriva, rimasi ad ascoltare la voce di mia madre. La trovai gracchiante e fastidiosa, stridula come un gesso su una lavagna d'ardesia. Attesi sino a quando le sue parole decisero di spegnersi. Solo allora dipinsi poesia anche sul suo cuore. Sbarrò gli occhi quando la lama le trapassò la carne. Sbarrò gli occhi, ma non urlò. Tacque, ma il suo non fu un silenzio di accusa, bensì di comprensione. Mi sentii quasi accolto dalle palpebre di mia madre, dalle sue pupille dilatate alla ricerca di un fioco raggio di luce. Poi il buio finale e la consapevolezza che non ci sarebbe stato ritorno.
Entrai nella tua stanza, dormivi placida e serena, bella come la luna d'agosto, quando i cieli sono in festa e si scatenano i fuochi d'artificio. Ti strinsi fra le mani e ti portai davanti alla soglia del convento. Sapevo che quelle donne ti avrebbero trattato bene. Le avevo studiate sai? Non credere che io abbia agito senza raziocinio. Erano buone e facevano del bene. Così ti lasciai infagottata davanti alla loro porta rossa. Ti diedi un bacio sulla fronte e me ne andai. Sapevo cosa dovevo fare, avevo trovato un modo semplice ed efficace per esprimere la mia arte. E l'ho fatto, eccome se l'ho fatto.
Negli anni ti ho osservata, vegliando sui tuoi passi, assicurandomi che nessuno e niente potesse nuocerti. Così ho continuato a poetare negli anni, volteggiando attorno a chi si avvicinava troppo alla tua figura. Come Tommaso, il ragazzino delle medie che continuava a tormentarti. Sparito per sempre un pomeriggio di pioggia. Ho composto un'ode per quel sempliciotto, l'ho intitolata "La sparizione". È stata la mia prima pubblicazione. E ti ricordi di don Rosa? Quel vile con le sue labbra libidinose che ti seguiva dappertutto, ricordo che una volta ha sfiorato la linea del bagno per venirti a fissare... beh, quello è stato una ballata meravigliosa! L'ho intitolata "Suicidio?". E che dire di quell'idiota che ti ha spezzato il cuore? Anche lì, la mia penna ha cantato ed è nato il mio più grande successo: "Acqua alla gola".
Infine, gli anni sono trascorsi come pioggia fra le dita. Uno scroscio di nulla, vuoto e pallido. La mia penna si è zittita. Così ho deciso di costituirmi e di rivelarmi al mondo. Uno scandalo, un orrore: il poeta assassino? Il mostro dell'inchiostro!
Tu non badare a queste sciocchezzuole: ricordati solo che di chi ti ha voluto veramente bene, chi ha badato al tuo cuore.
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Confessioni di malandrini
HorrorOgni racconto è a sé e rivela la confessione di un protagonista, il quale narra in prima persona gli eventi che ruotano attorno alla sua vita.