Capitolo 32 (Seconda parte)

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Lo aveva appena lasciato davanti al bar. Se non gli avesse chiesto di fermarsi, Dean si sarebbe tenuto sotto ai 20 km/h per farlo ruzzolare sull’asfalto in posizione fetale, senza fermarsi. Come se Danny non si fosse pentito di avergli chiesto un passaggio, aveva visto la luce ad un paio di incroci. Al ritorno sarebbe andato felicemente a piedi. Osservò il locale dall’aspetto anonimo sfilandosi il pacchetto dalla tasca del giubbotto. Poggiò la sigaretta tra le labbra e l’accese con mano tremante. Era agitato, non era da lui. Era sempre stato il fratello maggiore, il ragazzo sbruffone e sicuro di sé. Ma era davvero così? Probabilmente si, quando si limitava a fuggire dai problemi. Ma da quando la vita aveva iniziato a dargli calci nel sedere, era caduto al minimo ostacolo. Dal pensare di avere il mondo sul palmo della mano, era passato a raschiare il fondo di un burrone buio, dove poteva sentire solo l’eco dei suoi pensieri. Per un po' aveva cercato di tapparsi a forza le orecchie e non ascoltarsi, aveva provato a chiudere gli occhi a forza desiderando di ritrovarsi in un posto migliore. Ma non era successo. Inspirò una boccata di fumo e lo lasciò danzare tra le labbra. Adesso aveva la possibilità di rialzarsi ed iniziare a camminare. Anche se sembrava un agnellino che muove i suoi primi ed incerti passi.

«Sembra tu stia fumando l’ultima sigaretta prima di dirigerti verso il patibolo», una voce lo riscosse dal fiume dei suoi angosciosi pensieri.

Con quel bastoncino di tabacco che bruciava tra le labbra, si voltò leggermente incrociando due iridi castano chiaro. Quelle iridi sembravano fatte di cioccolato a latte. Aveva dei capelli castani che gli cadevano leggermente sul viso, dai tratti dolci ma con la mascella definita a spezzare la delicatezza, in un “finto” disordine. Era leggermente più alto di lui, le spalle erano larghe, le braccia sembravano fin troppo allenate. Frequentava sicuramente una palestra. «Se così fosse?» fece un sorriso sghembo e sbruffone.

«Direi che sopravviverai», sghignazzò. Aveva gli occhi ed il sorriso gentili. «Lì dentro non morde nessuno, e soprattutto non fanno esecuzioni», indicò con il capo la porta da cui era uscito.

Peccato non si riferisse al colloquio. «Non mi riferivo a quello», sussultò e spalancò impercettibilmente gli occhi. Non voleva dirlo, soprattutto non ad uno sconosciuto. Lo sapeva, ad uno di quegli incroci aveva attraversato quel tunnel e corso verso la luce mentre batteva la testa sull'asfalto. Stava sicuramente sognando, o qualcosa del genere. E se fosse finito in coma e quel ragazzo fosse frutto del suo cervello pieno di arcobaleni e unicorni, come diceva sempre Kevin, riferendosi agli omosessuali? Fece un tiro, a disagio.

«Immaginavo».

Incrociò nuovamente lo sguardo, era serio, fermo. Il silenzio che ne seguì era pieno di imbarazzo. Solitamente avrebbe iniziato a parlare in modo fluido, non era timido, anzi. Ma non era in forma, era agitato per il colloquio e in quei giorni aveva dormito poco e male, tra un pianto e l'altro mentre si dava della femminuccia isterica. «Mi chiamo Daniel».

«Daniel» ripeté rimuginando come se volesse dire qualcosa, negò con il capo. «Phil, piacere», gli sorrise, «Che fai qui, Daniel? Non ti ho mai visto da queste parti».

«Sono qui per un colloquio», non era un criminale, vero? Non era uno di quei serial killer di cui parlavano le testate dei giornali, in televione e, dopo anni, in quei programmi televisivi dove i suoi cari raccontano che non sospettavano di nulla, nonostante vivessero sotto lo stesso tetto? Sperava di no. Già lo vedeva Dean, con un velo nero davanti al viso sfigurato dalle lacrime, come le vedove addolorate, raccontare singhiozzante la perdita del suo adorato e perfetto fratellone.

Phil annuì, poi guardò l’ora sul telefono. «Devo scappare, spero di rivederti».

«Spero di rivederti anche io», sussurrò senza volerlo mentre osservava le spalle del ragazzo allontanarsi sempre più. Quella era stata la conversazione più strana che avesse mai fatto, e ne aveva conosciuta di gente. Anche lui non si era comportato come suo solito, che fosse dovuto a quel pessimo periodo? Ne era quasi certo. Si decise a spegnere la sigaretta nel posacenere di uno dei tavoli che contornavano l'ingresso anonimo. Anche i tavoli, grigi in plastica e le sedie del medesimo colore, lo erano. Non aveva mai avuto paura di parlare, di presentarsi, né tanto meno di un colloquio. Lui aveva il dono della parlantina, della sicurezza quasi innata che gli permetteva di mantenere la calma anche nelle situazioni più stressanti. Aveva provato a dare qualche esame al college e se l'era cavata grazie a questo. Ma ora? Aveva perso tutta quella sicurezza da quando il mondo in torno a sé aveva incominciato a vacillare e lui era collassato con esso. Non aveva più tutte quelle sicurezze, non sapeva cosa ne stava facendo della propria vita. Aveva lasciato gli studi senza dire nulla ai suoi, era stato rifiutato e, come se non bastasse, i sensi di colpa del passato stavano bussando prepotentemente alla porta. Si era comportato come uno stronzo con Vick, fino alla fine. Anche se aveva cercato di rimediare, di rimettersi con lui per non lasciarlo solo. Sapeva che era pietà, quella che odiava tanto il teppista. Perché tra loro, l'amore era già svanito da molto tempo, se così si poteva chiamare. Sospirò. Ciò che lo preoccupava era la paura di fallire ancora, di sprofondare ancora di più in quelle sabbie mobili. Avanzò verso la porta, l’aprì e seguì il suono della campanella sulla cornice della porta, ad avvisare il suo ingresso. L’atmosfera era calda ed accogliente, come se fosse in una casa vissuta con una famiglia amorevole. I tavolini erano in legno e le sedie avevano imbottiture bordeaux. Lungo le pareti, e a fare da separè tra uno spazio e l'altro, c’erano librerie abitate da libri vecchi e nuovi. Alcuni avevano la costa più vissuta, altri sembravano immacolati. Ma nulla stonava, nemmeno le piante di edera che circondavano gli scaffali dando un tono di verde acceso, come se fossero entrati in un mondo a sé. Il bancone era nuovo, con qualche decorazione in legno lungo la base e due donne chiacchierano tranquille. I clienti erano pochi, come potevano aver bisogno di altro personale? Che fosse una vendetta di Price? Si avvicinò, poggiando i gomiti sul pianale e sfoggiando il sorriso più tranquillo e sicuro che avesse in repertorio. Sperava non sembrasse una smorfia. «Salve.»

E il tempo scivola viaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora