5. - holden caulfield

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Mi servirono tre anni di sofferenze ed insonnia per riuscire a trovare un equilibrio che mi garantisse, finalmente, di vivere la scuola con un minimo di tranquillità.
Al quarto anno delle superiori avevo ancora qualche insufficienza qua e là, mio padre aveva ormai perso la voce a furia di ripetermi quanto la scuola fosse importante e mamma aveva imparato a voltare la testa dall'altra parte quando mi vedeva ancora in piedi alle due di notte.

Per anni avevo perso la vita dietro allo studio, dietro ai vocabolari di lingue morte che campeggiavano sulla scrivania e stavo appena iniziando a vederne i risultati.
Partì tutto con delle piccole soddisfazioni: voti altissimi in italiano, una sufficienza sfiorata in latino e un'insufficienza meno grave in greco. Certo, non ero ai livelli di Pietro, non lo sarei mai stata, ma avevo meno preoccupazioni di prima.
E visto lo standard che mi ero creata gli anni precedenti, per i miei genitori questo era un grande traguardo.

"Un solo debito." Disse papà, osservando la pagella per poi regalarmi uno dei suoi rari sorrisi, guardandomi per la prima volta da quando avevo iniziato le superiori con orgoglio negli occhi.
Cercai di sorridere, finendo ad osservare papà con un'espressione imbarazzata e tesa.
Non ero abituata ai suoi complimenti, o a uno di quegli sguardi così.

Sapevo che papà mi metteva su un piano diverso rispetto a quello su cui aveva messo mio fratello e i figli di Luca: dai figli del suo defunto migliore amico si aspettava il minimo indispensabile, che onorassero la memoria del padre e trovassero la loro strada con una leggera spinta da parte sua, da Marco si aspettava una carriera in qualche ambito artistico, magari come architetto, visti gli scarabocchi che mio fratello continuava ad appendere ai muri di camera sua.
Da me, invece, si aspettava il meglio.

Io ero la figlia dedita allo studio, Marco era troppo artista, troppo perso nella sua testa per potersi applicare in materie che mio padre riteneva utili, quindi gli rimanevo solo io.
Papà aveva sempre puntato su di me e vedermi andare leggermente meglio a scuola era una soddisfazione sia mia che sua, forse persino più sua che mia.

"Già." Commentai, lanciando un solo sguardo a una delle tre foto che mio padre aveva appeso al muro nel suo ufficio.

La più grande era la foto del giorno in cui lui e mamma si sono sposati: lei bellissima, vestita di bianco, lui in camicia, senza giacca e cravatta perché era agosto e si moriva di caldo.
Nella foto, i miei genitori sono intenti a scambiarsi un bacio davanti al comune e ad oggi è ancora la foto più bella che hanno.
Erano giovani, belli e felici.

La seconda foto, a destra della prima, siamo io e Marco da bambini.
Avrò avuto sì e no quattro anni, Marco appena due ed eravamo entrambi chiusi in questi giacconi di neve, con un pupazzo terribile fatto da me fra noi due e il braccio di mamma tagliato a metà dall'inquadratura mentre cercava di tenere in piedi mio fratello.

La terza foto, quella che non guardo mai perché fa troppo male, sono papà e Luca che tengono me e Adriano, neonati, fra le braccia.
Quei miseri sei mesi che mi separano dal lui sono evidenti: mentre la me appena nata della foto strilla fra le braccia di papà, l'Adriano di sei mesi sorride con il ciuccio in bocca.

Luca ride a squarciagola, i suoi occhi verdi sono concentrati su Adriano e sul sorriso che dedica alla fotocamera, mentre mio padre ha lo stesso sguardo serio che ho io adesso, intento a cullarmi per farmi smettere di piangere.

Quella foto è un ricordo che fa male per tanti motivi.
Il sorriso di Luca che non vedo da così tanti anni che non ho nemmeno il coraggio di mettermi a contarli, la prova reale che io e Adriano siamo legati, connessi, così stretti l'uno alla vita dell'altro che spezzare quel filo che condividiamo da quando siamo nati diventa impossibile.

Continuai ad osservare mio padre e la sua rara espressione fiera per non posare lo sguardo su quelle tre foto.
Avevo degli obiettivi precisi, in quel momento della mia vita.
Non puntavo ad essere la migliore della classe, perché era chiaro che nonostante tutti i miei sforzi e la fatica che ci stavo mettendo, non ce l'avrei mai fatta.

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