Chapter One.

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*capitolo revisionato e riscritto*

(LEI)

Solitamente non amo essere svegliata, ma questa notte ho fatto degli incubi, ho ricordato cose che non avrei voluto ricordare. Con le occhiaie che m'incupiscono lo sguardo, mi alzo e mi dirigo verso l'armadio, che si trova a pochi passi dal mio letto matrimoniale. Lo apro e tiro fuori degli abiti scuri, poi mi vesto e scendo al piano terra. Dalle scale, sento il rumore di qualcuno che parla. Guardo a sinistra, verso il salotto, ma non c'è nessuno; allora guardo a destra, affacciandomi sulla sala da pranzo e sento che il rumore viene da lì. Attraverso la stanza ed entrò in cucina, dove c'è la mia famiglia che fa colazione.
«Buongiorno tesoro, dormito bene?» chiede gentilmente mia madre. Mentre annuisco e mi avvicino al tavolo, lei scala di un posto per farmi sedere tra lei e Nic. Quest'ultimo, quando mi siedo, mi sorride e mi scompiglia i capelli. Mentre gli sorrido a mia volta, Lidia mi porge la mia colazione, che mangio in fretta prima di salutare e tornare al piano superiore, dove vado in bagno e mi preparo per la giornata. Mi pettino i capelli lunghi e neri e me li lego in una coda alta, poi mi trucco per coprire la stanchezza e le imperfezioni che marchiano costantemente il mio viso pallido. Guardo velocemente il mio riflesso allo specchio, prima di uscire dal bagno per tornare in camera, dove prendo lo zaino e il necessario per la giornata. Auricolari alle orecchie, scendo le scale e saluto tutti. Prima di uscire, mia madre mi ricorda che manca poco alla fine del liceo.
Io e mia madre abbiamo, com'è naturale, molte cose in comune ma l'odio per la scuola batte tutte le altre. Lei non ha finito il liceo, un po' perché l'odiava ma soprattutto per la mia nascita. Uscita di casa, percorro il giardino ed esco dal cancello secondario, ritrovandomi così su una strada di campagna praticamente vuota. Mi guardo indietro e vedo che l'autobus sta per arrivare, quindi iniziò a correre per non perderlo; non che m'interessi molto la scuola, ma non voglio stare venti minuti ad aspettare il successivo. Salita sull'autobus, mi siedo in una delle sedute più in fondo, dove non si siede mai nessuno. Con il volto attaccato al finestrino, la natura sfreccia sotto al mio sguardo e fa passare un lungo lasso di tempo in quelli che mi paiono pochi istanti. Quando l'autobus si ferma alla mia fermata, scendo senza troppa fretta e seguo l'afflusso di studenti verso l'ingresso. La maggior parte é tesa per qualche interrogazione o verifica, anche le ragazze che pensano di essere mie amiche lo sono, ma quando mi vedono passare davanti a loro senza fermarsi, chiudono i libri e mi inseguono, chiamandomi.
«Diana! Diana! Non ci avevi viste? Eravamo sedute alle panchine!» continuano a gridare le oche. Dato che devo ancora svegliarmi, mi fermo e le aspetto; odio le urla di prima mattina. Mi giro e fingo un sorriso
«Ciao ragazze. Io vado in classe, voi studiare bene perché poi dovrete suggerirmi le soluzioni.» dico, prima di tornare sui miei passi. Il professore di filosofia rimane stupito quando mi vede entrare in classe, ma capisce quando mi siedo nel banco in fondo; quindi sospira e continua a correggere le verifche. Dato che devo far passare il tempo, leggo; ma  non faccio in tempo a finire il capitolo che la campanella suona e devo metterlo via. L'aula inizia a riempirsi e io inizio ad appisolarmi.

«Di! Di! Diana?!» é l'oca numero uno che mi chiama, sottovoce. Alzo lo sguardo e la vedo. É nel banco davanti al mio, col busto girato di 180º e cerca di attirare la mia attenzione con palline di carta. Alzo lo sguardo ancora di un po' e vedo il professore di filosofia che mi cerca tra i compagni e dice il mio nome. «Diana Kal? Signorina Kal?» mi alzo, e dico «Professore, sono cinque anni che glielo dico e glielo ripeto: usi il mio cognome. Rogers. Finché non mi chiama Diana Rogers, io non vengo.»
Lui si scusa. Sono riuscita a prenderlo in giro ancora una volta.
«Riproviamo.» dice. Mi fa sedere, si siede anche lui, poi mi chiama con l'altro cognome «Diana Rogers?». Mi alzo con un sorriso a 300 denti e mi avvicino alla cattedra, dove il prof mi passa la verifica con un volto contrariato, ma non so se per il voto o se per la storia del cognome. Torno al banco e butto la verifica. L'oca due prende la mia verifica, guarda il voto e poi mi osserva. Ripete il tutto un paio di volte. Poi mi chiede «Come hai fatto?» faccio spallucce e torno ad appisolarmi, come più o meno sempre. Mi risveglio alla seconda ora, con la professoressa di Inglese che sta cercando di leggere i cognomi e fare l'appello. Caso vuole che sia al mio. I professori vogliono Kal, io voglio Rogers. Mio padre é d'accordo con i prof, Nic con me.
Passa un giorno e sembra passato un millennio. E come ogni altro giorno, non ho fatto i compiti. E come ogni altro giorno, me li passano le oche e i secchioni in cerca di favori, o della mia attenzione. Non ho ancora capito se sia una fortuna o una sfortuna il fatto che molti genitori degli alunni di questa scuola sono alle dipendenze di Nicolas. Sta di fatto che sfrutto molto la mia posizione sociale nei loro confronti, cosa che da piccola non ho mai fatto, ma che anzi facevano con me.
Un altro millennio ed é mercoledì. Poi un'altro ed un'altro. E finalmente siamo arrivati a venerdì, il Giorno della Libertà, come lo chiamiamo io e i miei genitori.
Sono praticamente persa fra le nuvole, in mensa, quando noto un ragazzo nell'angolo più estremo della stanza che sta guardando fuori della finestra e che di tanto in tanto si appunta qualcosa su un grande block notes. Sono decisa a voler spaccare la mia routine, la normalità e mi alzo. Prendo il vassoio e butto i resti, mentre continuo a guardarlo disegnare. Guarda fuori dalla finestra e scribacchia. Le mie "amiche" mi seguono e quando capiscono, si alzano dalla panca e mi inseguono.

Dark soul.  [completata] [prequel di Letters to Diana]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora